Padre Vittorio Bongiovanni e la «missione del cavatappi»
In occasione del mese missionario abbiamo intervistato padre Vittorio Bongiovanni, missionario saveriano originario di Bozzolo.
Padre Vittorio, che cosa vuol dire per lei oggi, dopo 53 anni di servizio, essere missionario?
«Quando ho celebrato il cinquantesimo anniversario di ordinazione sacerdotale sono andato a vivere per quattro giorni in un piccolo villaggio. Mi sono interrogato sulla mia vocazione e ho scoperto che il missionario è come un cavatappi: dobbiamo tirare fuori i talenti di questi giovani e delle persone che ci sono accanto».
Quale crede sia la caratteristica principale delle persone che ha incontrato in Sierra Leone?
«Sinceramente, più sto in mezzo a loro e meno li capisco, ma mi viene da amarli di più. Hanno la capacità di soffrire, sopportare e rialzare la testa. Sono persone bellissime e ringrazio sempre il Signore di questa esperienza di vita; lui era già in Sierra Leone ad aspettarmi.
È cambiata negli anni la sua idea di missione?
«All’inizio pensavo che fare il missionario fosse una cosa semplice. Invece è una conversione continua, perché noi stiamo imitando Gesù che ci ha detto: andate e chiamate tutti! Da qui i progetti con le scuole, di sviluppo sociale, di sostegno ai malati. Come dicevo, noi siamo come cavatappi pronti a far emergere le capacità di ciascuno. Ai ragazzi diciamo che i problemi della Sierra Leone li dovranno risolvere loro! Ecco perché, d’accordo con la diocesi, abbiamo messo a scuola più di 400 bambini. Ero incaricato di 47 scuole elementari e 7 scuole medie. Alcuni di questi bambini hanno fatto carriera: una è diventata segretaria del presidente; uno giudice; altri studiano medicina. Una volta, all’ingresso dell’aeroporto, una poliziotta mi ordina di accostare e di scendere dalla macchina. Poi mi abbraccia e mi dice: “È grazie a lei se, andando a scuola, ho trovato un lavoro, mi sono sposata e ho una famiglia”. Da poco abbiamo avuto il nuovo vescovo, che non è più un bianco ma un locale. Sono molto felice di questo, perché ho insistito tanto perché potesse essere un sacerdote del posto. Lo scopo del missionario non è sostituirsi, ma di far emergere nuovi protagonisti. E adesso che vivo insieme a un prete della Sierra Leone mi sono accorto che ho ancora tantissimo da imparare, ho ancora bisogno di convertirmi».
Lei è stato anche direttore del centro catechistico: come si fa catechesi in Sierra Leone?
«D’accordo con il Vescovo, facciamo la catechesi con i disegni. Quello che si dice a parole io poi lo traduco per immagini. I sussidi parrocchiali sui comandamenti o i sacramenti, ad esempio, erano tutti disegnati. Durante le mie prediche chiedo alla gente che cosa vedono sul foglio e che cosa possa significare. Ogni anno abbiamo dei catecumeni che chiedono il Battesimo: se qualcuno inizia a perdere la Messa domenicale senza una scusa ragionevole deve ripetere l’anno. Siamo molto severi, ma non per il gusto di farlo: vogliamo far capire la gioia di essere cristiani in un contesto in cui la maggior parte è di fede musulmana».
Com’è la convivenza con i musulmani?
«Con loro mi trovo bene. C’è affetto reciproco e, grazie alle indicazioni di Papa Francesco, riusciamo a convivere senza pregiudizi, perché insistiamo nel conoscere le reciproche religioni e cercare di vedere il bene dell’altro. Proprio durante una sua visita in Africa Centrale, il Pontefice aveva detto: “Siamo fratelli e sorelle, vogliamoci bene come tali”. Questa frase ce la ripetiamo spesso e insieme a loro cerchiamo di guardare agli aspetti positivi e incoraggiarci a vicenda. Ad esempio, alla Messa della domenica vengono anche dei musulmani ad assistere. Io predico usando la Bibbia e il Corano, perché voglio parlare anche a loro. Ho trovato infatti i passi simili tra i due testi sacri… Abbiamo in comune più di quanto possiamo immaginare. Ho fatto anche un libretto disegnato proprio sulle affinità tra Cristianesimo e Islamismo. L’avevo portato a una coppia musulmana per un parere e mi fecero alcune correzioni, ma hanno apprezzato molto questa attenzione che è anche una manifestazione di affetto».
Dopo tutti questi anni in Sierra Leone come è cambiata la percezione del missionario da parte della gente del posto?
«Se tu chiedi alla gente musulmana che che cosa pensa dei missionari ti risponderanno che sono ricchi ma aiutano i poveri, sono teneri con i bambini, hanno simpatia per coloro che stanno male. Loro sanno che molto spesso, quasi ogni giorno, io porto i malati all’ospedale, pago al posto loro ciò di cui hanno bisogno. Oppure ogni mercoledì pomeriggio, alla missione, ho l’incontro con i bambini: sono sempre dai 300 ai 400, prevalentemente musulmani mandati dalle loro mamme. Monsignor Azzolini diceva: “Mi raccomando, vogliate bene ai bambini, curateli, mandateli a scuola, perché attraverso loro arriverete alle loro famiglie”. E quando sei sereno e contento con loro riesci a costruire cose grandiose! È con questo principio, uniti nella diversità, rispettosi della dignità di ciascuno, che andiamo avanti. E se qualcuno approfitta di questo aiuto, io penso: “Caro Signore, se fregano me fregano anche te: fai anche tu il tuo!”».
Nonostante l’età avanzata, gli “acciacchi” e situazioni anche non facili lei ha sempre il volto sorridente: dove trova questa questa energia così propositiva?
«Come dicevo poco fa, il missionario ha bisogno di una conversione continua. E mi sono accorto che è il Signore il missionario numero uno: colui che è vivo e ti sta vicino. Rifletto spesso sulle catechesi del Papa al mercoledì e le sue encicliche: testi che ho studiato e diffuso, perché sono bellissimi e si prestano proprio a una riflessione sul ruolo del missionario e sulla familiarità con Gesù. Se io vedo qualche missionario che non è contento gli consiglio di tornare al proprio Paese, perché dobbiamo fare uno sforzo per far vedere uno sguardo o un sorriso bello alle persone che ti hanno affidato. È quello che mi dà la forza di andare avanti».
Eppure anche nella sua vita da missionario ci saranno stati momenti in cui ha avuto paura o si è sentito solo…
«Una volta presa la malaria, nonostante le medicine, i dottori mi dissero che non c’era più niente da fare per me. Risposi loro che mi ero preparato a incontrare il Signore. O ancora, quando fui catturato e tenuto prigioniero dai ribelli nel 1999, mi trovai a un passo dai cancelli del Paradiso quando il loro comandante mi torturò e mi mise una pistola alla testa. “Perché non hai paura?”, mi chiese insultandomi. Gli risposi: “La mia vita è nelle mani del Signore, di che cosa dovrei aver paura?».
Papa Francesco ha ribadito più volte di essere missionari nelle periferie delle città: c’è differenza tra essere evangelizzatori in Sierra Leone e a Cremona?
«Personalmente penso sia più difficile essere evangelizzatori in Italia che in Africa. Perché qui c’è un’indifferenza altissima, in particolare tra i giovani. Questo mi spaventa molto. Qui avete tante bellissime chiese vuote, là noi abbiamo delle baracche piene, e questo ti dà la gioia! Fa saltare un battito del cuore quando un sacerdote non trova giovani, bambini, famiglie in chiesa. In Sierra Leone, anche se magari non capiscono che cosa significhi essere cristiani, le persone vengono e ti sono vicine, perché sei una figura di riferimento per loro».
In Italia evidentemente la figura del sacerdote e forse anche della Chiesa risulta un po’ in crisi?
«È certamente più difficile di un tempo e i preti diocesani devono avere una fibra forte e tanta determinazione. Secondo me qui in Italia forse c’è anche un po’ di paura a essere evangelizzatori nelle città, per l’insicurezza di non sapersi relazionare con così tante diversità culturali, sociali, religiose. Io ammiro tanto i nostri sacerdoti diocesani. Ecco perché c’è bisogno di essere cavatappi, cioè vedere il bene delle persone: questo per me significa essere missionario, anche a Cremona!».