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Nella Grande Guerra una nuova percezione del rapporto Chiesa-mondo

Ritornati dopo la guerra “nelle loro città e nei loro villaggi parecchi preti non saranno più capaci di fare certi sermoni retorici e molti soldati non saranno più capaci di starli a sentire”: è una frase di padre Giovanni Semeria a sintetizzare cos’abbia rappresentato il primo conflitto mondiale per molti ecclesiastici che, al fronte, “hanno vissuto un momento particolare, un unicum nel loro ministero”. Questi gli argomenti al centro del Convegno “Dalla trincea alla parrocchia: il ritorno dalla grande guerra e la memoria”, che il 6 e il 7 aprile si è svolto a Udine.

Il convegno ha consentito una riflessione ad ampio raggio, con otto relazioni su due giorni, svolte da studiosi provenienti da diverse università, mettendo a fuoco le ricadute della guerra e il senso della memoria negli anni successivi al 1915-18. Promosso da Fondazione Don Primo Mazzolari e Istituto friulano per la storia del movimento di Liberazione, in collaborazione con l’Università degli Studi di Udine, è stato realizzato in occasione del centenario della fine della prima guerra mondiale.

Don Bruno Bignami, presidente della Fondazione Don Primo Mazzolari, ha svolto la relazione d’apertura della seconda sessione. Nella sua analisi, documentata con fonti e numerose citazioni, ha spiegato come sia emersa, dalla tragedia bellica, “una diversa percezione del rapporto Chiesa-mondo”, costruita sulla condivisione tra preti e laici, tra credenti e non credenti, della barbarie della guerra, delle sofferenze imposte e subite, del sangue e delle privazioni. “La guerra – ha afferma il sacerdote cremonese – fa guardare la realtà con occhi nuovi. Non c’è più un mondo separato dalla Chiesa, altro e lontano; Dio si rende presente ovunque”, nelle sofferenze dell’umanità e “nel bene che è seminato dappertutto”.

Don Bignami ha citato, naturalmente, testi e omelie di don Mazzolari, insieme anche a don Guido Astori, don Giuseppe Tedeschi, don Giovanni Minzoni, don Giulio Facibeni. “La vera vittoria del prete tornato dalla guerra non è con le armi, ma – ha dichiarato – quella che consente di risanare le ferite dell’anima”.

Gli orrori della guerra, e la “condivisione” da parte dei sacerdoti dell’esperienza della trincea, hanno fatto sorgere numerosissime crisi spirituali: “La crisi del prete soldato o cappellano militare assume molteplici forme” perché “la guerra è passata come un uragano lasciando segni di devastazione, disumanità, odio”. Una crisi – tratteggiata da don Bruno Bignami – che è sia “personale” che “istituzionale”, nel senso che riguarda le stesse comunità parrocchiali e tante diocesi, specialmente quelle nei pressi del fronte.

Don Celso Costantini, amministratore apostolico a Fiume, nel 1921 scrive della difficile ripresa post bellica: “cappellani militari e preti profughi che ritornavano e che bisognava ricollocare a posto; il seminario da riattivare; paesi senza preti, a cui urgeva provvedere; opera di ricostruzione morale e religiosa e pure di assistenza caritativa; rapporti che bisognava ristabilire con le autorità civili e militari italiane”. L’Italia è stremata dalla guerra; la “vittoria” non lenisce le ferite con le quali anche la Chiesa deve fare i conti. “C’è bisogno di uomini nuovi”, segnala padre Semeria, per ricostruire sulle macerie della guerra; ciò vale per la realtà civile come per quella ecclesiale, sia Italia che negli altri Paesi coinvolti nella contesa. Un messaggio che, sottolinea il relatore, ha la forza dell’attualità.

“C’è molto da fare – ha osservato, alla luce dei suoi studi, don Bignami – in tema di formazione delle coscienze e l’avvento rapido del fascismo testimonia quanta fatica si è avuta nella capacità di leggere la realtà. Soprattutto ci si accorge che la guerra aveva riscritto la relazione tra il ministero” sacerdotale “e il mondo: un rapporto non più di separazione, ma di condivisione”. “Su queste lunghezze d’onda si collocano le strade generatrici ipotizzate da alcuni protagonisti del clero in guerra: l’antifascismo come formazione di coscienze libere, la carità in risposta alle ferite della guerra e la missione come esigenza di fraternità. Sono rivoli che si trasformeranno in fiume carsico nel Novecento, capace di preparare i temi di Gaudium et spes del Concilio Vaticano II”, fra i quali il rapporto Chiesa-mondo, la pace, la laicità.

“Don Primo Mazzolari, il ritorno alla pace e la memoria della grande guerra” il tema assegnato, invece, a Giorgio Vecchio, docente all’Università di Parma e presidente del Comitato scientifico della Fondazione Mazzolari. Don Primo fu in divisa dal 1915 al 1920; in guerra perse l’amato fratello Peppino; accompagnò le sofferenze dei militari, e le loro esigenze spirituali, in diverse regioni di guerra e fin oltre l’evento bellico. Partito per il fronte come convinto “interventista”, portò a casa e nel suo ministero una profonda rivisitazione del concetto di guerra, fino a diventare un simbolo del pacifismo italiano ed europeo (del 1955 è il suo volume “Tu non uccidere”, ritenuto appunto un manifesto del pacifismo di matrice cattolica).

Il prof. Vecchio nel suo intervento ha dapprima riepilogato le tappe della vita militare di don Mazzolari, per poi riferire dei numerosi interventi, omelie, discorsi, scritti del sacerdote cremonese sul tema della memoria della guerra e degli insegnamenti da trarne. Ad esempio, commemorando la vittoria del 1918, affermerà: “Eravamo contenti di non morire ma anche di non far morire. Fu l’unico giorno in cui il fucile non pesava nelle mani e sulle spalle perché non pesava più sul cuore. Per questo soprattutto nessun giorno della patria fu più bello del 4 novembre 1918”.

In altra occasione Mazzolari riflette sul binomio religione-patria, simboleggiato dalla sua presenza fisica accanto alla bandiera. “La religione, benedicendo la bandiera, mette in luce il divino che c’è nell’idea di patria, affinché coloro che vi si accostano ne prendano un rispetto immenso e si guardino di profanarla in qualsiasi modo. […] Questa è la meraviglia della religione: quindi la necessità che essa presieda ogni attività buona dell’uomo. In altre parole: ho benedetto la bandiera perché noi ci disponiamo a mettere fuori del nostro cuore quello che di essa è indegno”. Mazzolari invita a purificarsi da tre cose, spiega il prof. Vecchio, “ovvero anzitutto ‘il concetto o l’esaltazione pagana della guerra, come se la guerra fosse una festa o un avviamento necessario per la grandezza della patria’. Secondariamente Mazzolari invita a purificarsi ‘da ogni particolarismo, dallo spirito settario e partigiano, il quale pretende di monopolizzare, di restringere a pochi, a una classe eletta, l’onore e il dovere di essere italiani’. Qui la polemica con il fascismo è evidente – osserva Vecchio – e risponde a un’altra posizione tipica dei cattolici del tempo, volti a rivendicare il proprio contributo di sangue alla patria, contestando la pretesa monopolistica fascista del patriottismo”. Infine, per don Primo Mazzolari “bisogna evitare il rischio di credere di aver già fatto a sufficienza: Nessuno può dire, guardando la bandiera della patria: io ho fatto abbastanza per te. Solo i morti lo possono dire, perché essi davvero hanno dato tutto”.

 

 

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