Martedì il vescovo Antonio in visita al San Camillo nella memoria del beato Rebuschini
Martedì 10 maggio visita ufficiale del vescovo Antonio alla Casa di Cura San Camillo in occasione della memoria liturgica del beato Enrico Rebuschini che per quasi 39 anni servì con esemplare dedizione gli ammalati della clinica di via Mantova. Il presule, alle ore 10, nella cappella che accoglie le spoglie del religioso camilliano beatificato da Giovanni Paolo II nel 1997, celebrerà l’Eucaristia solenne affiancato dal superiore padre Virginio Bebber, dalla comunità camilliana e da alcuni sacerdoti diocesani. Al termine dell’Eucaristia i fedeli presenti potranno venerare una reliquie del beato. Succesivamente mons. Napolioni visiterà alcuni reparti – Medicina, Riabilitazione e Hospice – soffermandosi con gli operatori sanitari, ma soprattutto gli ospiti.
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«Il Beato Enrico – spiega padre Bebber – ha speso la sua vita incontrando, giorno dopo giorno, nelle corsie dell’ospedale o nell’interno delle case private, il mondo della sofferenza e della malattia, annunciando e rappresentando a quei fratelli sofferenti l’amore misericordioso di Dio che è Padre e non si dimentica mai dei suoi figli. Il Figlio suo incarnato si è fatto solidale con la sofferenza dell’umanità patendo e morendo “per tutti” sulla croce».
«Nel cammino giubilare della misericordia – prosegue il superiore di San Camillo – Papa Francesco richiama ogni cristiano a vivere le opere di misericordia corporali e spirituali tra cui c’è anche l’impegno a visitare i malati. Nella sua festa liturgica il Beato Enrico si rivolge alla sensibilità del cuore di ogni persona di buona volontà per domandare: “non hai forse un po’ di tempo da dedicare a chi soffre?”».
A tal proposito padre Bebber ricorda che nella casa di cura di via Mantova è attivo già da alcuni anni un gruppo di volontariato denominato “Amare e Donare”: «Si tratta di un’associazione che riunisce quanti desiderano testimoniare l’amore di Gesù verso i malati, sull’esempio di San Camillo donando un po’ del proprio tempo per stare accanto a chi soffre. Occorre che ci si ricordi che saper amare è un dono e saper donare è amore. L’esempio del Beato Enrico ci interpella se, come cristiani, sappiamo essere dono nei confronti di fratelli sofferenti che forse vivono nella solitudine la loro esperienza di malattia».
PROFILO BIOGRAFICO DEL BEATO ENRICO
Il Beato Enrico Rebuschini, che ha fatto esperienza della malattia risultando ricoverato per un certo periodo in una casa di cura, scriverà dopo anni: «Là Dio opera la mia salute come darmi confidenza nella sua infinità bontà e misericordia». Come San Camillo la piaga ulcerosa è stata la via che lo ha condotto agli ammalati, così per il nostro Enrico la malattia lo aiuterà ad affinare la sua sensibilità verso i malati e a orientarsi verso la vocazione camilliana.
Sarà pregando davanti al quadro di S. Camillo De Lellis, nella chiesa parrocchiale di Como di S. Eusebio, che Enrico, come confidò a un suo cugino, ebbe come una folgorazione che illuminò la sua strada: Il Santo è ritratto davanti al crocifisso, che staccando le braccia dalla croce gli dice: «Continua, l’opera non è tua, ma mia». Enrico, ritiene rivolta a se quell’esortazione e, a 27 anni, decide di presentarsi al noviziato dei Camilliani a Verona.
Con particolare dispensa, ancora durante il biennio di noviziato viene ordinato sacerdote dal Vescovo di Mantova, mons. Giuseppe Sarto (futuro San Pio X), il 14 aprile 1889. Nella festa dell’Immacolata 1891 emette la professione religiosa definitiva. Per un decennio svolge il suo ministero a Verona, prodigandisi, come assistente spirituale agli infermi negli ospedali Militare (1890-95) e civile (1896- 99) della città.
Il 1° maggio 1899 padre Enrico arriva a Cremona, nella Casa di Cura S. Camillo, dove rimarrà fino alla morte, avvenuta il 10 maggio 1938.
Quarat’anni di vita e di operosità, in cui senza far rumore, ma con l’eloquenza dell’esempio e della bontà, s’è guadagnato la stima e l’affetto di tutta la città e il soprannome popolare di “Padrino santo”.
Il nostro beato ci svela il segreto della santità “feriale”, ossia della santità vissuta nella quotidianità dell’esistenza. Lo scrittore Alessandro Pronzato ha così felicemente sintetizzato il suo identikit: «Uno come noi e tanto diverso da noi». Ossia non ha compiuto azioni straordinarie, ma ha vissuto con straordinaria spiritualità la vita di ogni giorno.
Era un religioso mite, umile, silenzioso, sempre disponibile ad aiutare i confratelli, i malati, i poveri, anche quando poteva ben pensare che qualcuno abusava della sua bontà.
Nel servizio ai malati applivaca la raccomandazione di San Camillo: «Servire i malati come fa una madre con il suo unico figlio infermo». Sua caratteristica era il tratto delicato, riguardoso e caritatevole verso tutti. Sempre di umore uguale , sereno, gentile e premuroso.
Per quelli che erano lontani da Dio, faceva pregare e pregava insistentemente lui stesso in cappella. Più volte fu visto sostare in orazione prima di entrare in una stanza dove c’era un malato allergico ad ogni richiamo religioso. Poi, timidamente, si affacciava rivolgendo poche parole, ma per lui parlava il volto, lo sguardo che riflettevano spiritualità convinta e sensibilità fraterna e colpivano salutarmente.
Un simile equilibrio, arricchito da una capacità di relazione autentica, fatta di sensibilità, manifesta la maturazione spirituale.
Il rapporto di padre Enrico con i malati era spontaneo, veniva dal cuore. Non lo riduceva a un rito formale. Ogni pomeriggio si ritagliava uno spazio di tempo, per far visita a ciascuno degli ospiti, visita breve, ma sincera, partecipe. Erano visite brevi, un saluto, una parola e, immancabile, la benedizione. Ma erano attese, recepite come benefiche e liberanti.
Le assistenze notturne ai moribondi erano sempre sue. La sera tardi, prima di ritirarsi in camera, ripassava a fare un’ultima visita a qualche ammalato, più grave e a raccomandare al fratello di guardia di chiamarlo se avvertiva un peggioramento. Chiamato, era sempre pronto. Tuttavia dava a credere che non si fosse neppure spogliato.
Era diffusa convinzione che gli riusciva di riconciliare con Dio anche le persone restie, ma senza pressioni indebite, con la sua presenza recepita come carica di comprensione e di tenerezza evangelica. Sua caratteristica era il tratto delicato, riguardoso e compiacente. Nei casi di malati lontani da Dio faceva pregare e pregava insistentemente lui stesso in cappella o vegliando alla porta.
Vedeva nei malati il Signore.
Padre Domenico Casera affermava che il beato onorava la sua vocazione camilliana in maniera spontanea, senza forzature, ci metteva la sua anima umanissima e la sua elevata spiritualità. L’amore ai malati era la prova esterna dell’autenticità del suo amore a Dio, quell’amore che, per riconoscimento unanime, raggiungeva i livelli della contemplazione. Non era lui che dava qualcosa all’ammalato con la sua visita, con la sua solidarietà nella sofferenza, con le risorse della fede, era l’ammalato che dava stimoli religiosi a lui, col suo spirito cristiano, con la fede degli ultimi giorni, la coerenza della vita, la pietà. Egli ne rimane stupito e stimolato, e affida qualche annotazione nei suoi scritti, dove documenta l’anima cristiana della gente e delle classi sociali che componevano il tessuto ella città.
Papa San Giovanni Paolo II, evidenziava ai pellegrini accorsi a Roma per la beatificazione del Rebuschini, il 4 maggio 1997, dicendo che : «Il nuovo beato ha testimoniato la carità misericordiosa, esercitandola in tutti gli ambiti in cui ha operato. Il suo saldo proposito di “consumare il proprio essere per dare Dio al prossimo, vedendo in esso il volto stesso del Signore”, lo impegnò in un arduo cammino ascetico e mistico, caratterizzato, da un amore straordinario per l’Eucarestia e dall’incessante dedizione per gli ammalati e i sofferenti».
Padre Antonio Casera
L’altare dove sono conservate le spoglie del beato Enrico Rebuschini