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«L’attore principale è sempre lo Spirito Santo»

Mercoledì 25 gennaio il vescovo emerito, mons. Dante Lafranconi, festeggerà il venticinquesimo anniversario di ordinazione episcopale. Proprio nel giorno della festa della conversione di San Paolo, alle ore 18, in Cattedrale, mons. Lafranconi attorniato dal suo successore, mons. Antonio Napolioni, da diversi altri vescovi e da molti sacerdoti e fedeli celebrerà una Eucaristia di ringraziamento. Qualche giorno fa lo abbiamo incontrato nella sua nuova casa nel centro di Cremona per ripercorrere questi lunghi anni di ministero episcopale prima in terra ligure e poi in quella lombarda.

 

Eccellenza, quando e in che modo seppe che il Papa la voleva vescovo di Savona-Noli?

«Mons. Maggiolini, allora vescovo di Como, mi chiamò dicendo che aveva bisogno urgente di parlarmi. Andai subito e mi disse: “Stamattina è arrivata la notizia della tua nomina a Vescovo”. Gli risposi che avevo bisogno di pensarci. Mi diede tempo entro le 10 del giorno successivo. Così appresi la notizia. Una cosa davvero imprevista».

Contentezza, paura, preoccupazione… quali sentimenti ebbero il sopravvento in lei?

«Da un certo punto di vista gioia e contentezza. Paura no. Invece un po’ di preoccupazione. Preoccupazione perché è un ministero che consideravo molto impegnativo e al quale non mi ritenevo proprio adatto. Poi perché stavo molto bene a Como; soprattutto i rapporti con la gente e i sacerdoti erano ottimi, per cui il timore era quello di perdere questo patrimonio di amicizie e di conoscenze. Ero preoccupato, infine, perché non sapevo a che cosa andavo incontro. Anche se negli ultimi tempi, grazie al mio servizio di vicario episcopale per il clero, ero particolarmente vicino al vescovo e qualcosa avevo intuito».

Che ricordo ha della sua ordinazione episcopale avvenuta nel duomo di Como?

«Anzitutto la presenza di tanti amici e di tante persone che avevo conosciuto nei campi di apostolato precedente e che sono stati una presenza di grande conforto. In secondo luogo la festa della conversione di san Paolo mi ha reso consapevole che tutti i giorni è necessario convertirsi. Bisogna convertirsi nel senso di accogliere, come Paolo, il mistero del Signore crocifisso, risorto, riponendo in lui tutta la fiducia. Ricordo poi l’omelia del vescovo Maggiolini, il quale, tra le altre cose, sottolineò un aspetto che mi rimase impresso: “Non siamo qui – disse – a celebrare una festa puramente umana, bensì stiamo celebrando lo Spirito Santo che agisce nella vita della Chiesa ed entra nell’esistenza di don Dante. Ecco, questo richiamo dell’omelia di mons. Maggiolini che, non proprio sempre, ma quasi tutti gli anni rileggo il 25 gennaio, mi richiama ancora oggi una grande verità: l’attore principale è lo Spirito Santo che trasforma il cuore dell’uomo».

Per dieci anni è stato pastore di Savona-Noli: come è stata la sua esperienza in terra ligure? Quali differenze ha trovato nella vita ecclesiale e nel temperamento delle persone rispetto alla Lombardia?

«Quella in Liguria è stata l’esperienza di un principiante che doveva imparare. Grazie a Dio ho potuto appoggiarmi al consiglio di un vescovo emerito, mons. Parodi, che risiedeva a Savona, e soprattutto di mons. Sanguineti che era stato trasferito a La Spezia ma con il quale potevo dialogare e quindi avere anche dei consigli preziosi. Ricordo con affetto le relazioni immediate e continuative con i sacerdoti e man mano che entravo nella realtà della vita savonese con tante persone. Si dice che i liguri non siano immediatamente capaci di affidarsi ad una persona, prima la vogliono studiare e credo che sia stato così anche nel mio caso, anche se l’accoglienza è stata molto fraterna e calorosa. Per il resto la diocesi era più piccola rispetto a Cremona, i rapporti con le persone più quotidiani, anche se la vita religiosa era diversa, nel senso che forse c’era meno partecipazione dal punto di vista numerico, però si contavano dei cristiani veramente convinti, attivi, che erano una presenza particolarmente significativa nella Chiesa e nella società».

L’8 settembre 1991 Giovanni Paolo II l’ha trasferita a Cremona. Se lo aspettava di tornare in terra lombarda? Quali sentimenti ha provato?

«No, non me lo aspettavo. Sono sempre stato convinto che un vescovo debba essere fedele alla sua diocesi come uno sposo è fedele alla sua sposa. Quando è arrivata questa notizia io l’ho accettata come avevo accettato precedentemente la nomina a vescovo e sono stato anche contento di tornare in Lombardia, anche se devo dire che non conoscevo proprio nulla della diocesi di Cremona, non ci ero mai stato. Mi sono detto: ci saranno di sicuro delle belle sorprese!».

Il suo episcopato cremonese è stato caratterizzato soprattutto dal rinnovamento dell’iniziazione cristiana secondo il metodo catecumenale. In tante occasioni, soprattutto nella visita pastorale, ha ribadito che i genitori sono i primi educatori alla fede. In questi 25 anni di episcopato come ha visto evolvere la famiglia? Perché questa resa educativa da parte dei papà e delle mamme?

«Credo che la resa educativa dipenda dal fatto che i papà e le mamme, cioè la generazione dei quarantenni e cinquantenni, vivano in una realtà dove il senso della fede come dimensione che pervade la vita si è rarefatto e quindi c’è una difficoltà, a volte direi anche proprio una incapacità, a praticare così intensamente la propria fede da farne una trasmissione quotidiana, normale, dentro il tessuto delle relazioni familiari. Credo che questo sia ciò che ha influito di più sulla trasformazione della famiglia e conseguentemente anche sul suo ruolo educativo. Del resto un certo smarrimento nei giudizi, nelle valutazioni delle cose e delle situazioni porta automaticamente ad aver meno incisività. Per cui ritengo che effettivamente il ripartire dall’iniziazione cristiana catecumenale che introduce nuovamente alla conoscenza di Gesù, alla partecipazione alla vita della Chiesa e a un percorso di formazione legato alla fede sia la cosa fondamentale. Sono sempre più convinto che il rinnovamento dell’iniziazione cristiana sia il punto fondamentale. Occorrerà che passi qualche generazione perché prenda davvero il ritmo, ma credo sia la strada da seguire».

La soddisfazione più grande del suo episcopato a Cremona?

«Di soddisfazioni ne ho avute tante. Per esempio una soddisfazione che certamente non mi aspettavo dal momento in cui sono stato nominato vescovo è la fraternità instaurata con i sacerdoti, almeno con una buona parte di loro. Una fraternità fatta di dialoghi molto sinceri e molto profondi. Un secondo elemento è stato certamente quello legato alla visita pastorale che mi ha permesso di entrare un po’ più nel vivo del tessuto quotidiano delle parrocchie. Anche se oggi la ripenserei in maniera diversa, perché alcuni elementi che secondo me dovevano essere significativi sono stati colti poco. Per esempio la celebrazione penitenziale iniziale voleva invitare a mettersi in un atteggiamento di accoglienza della Parola di Dio che poi spingesse alla conversione. Credo che questo aspetto non sia stato molto valorizzato. Nei giorni di permanenza nelle comunità ho comunque avuto modo di conoscere più a fondo molti aspetti. Un’altra soddisfazione è stata quella di ordinare a Cremona il mio successore, don Antonio».

Facendo un bilancio del suo servizio cremonese ha qualche rammarico?

«Alcune volte credo di essere stato troppo accondiscendente. La mia preoccupazione di mantenere rapporti buoni, cordiali, di procedere sempre attraverso il dialogo e il confronto, di non essere così esigente su certi modelli di pastorale che potevano essere opinabili – non che fossero sbagliati, ma magari non perfettamente in linea con l’impostazione pastorale della diocesi e della Chiesa italiana – mi hanno reso troppo accondiscendente. Ho capito che questo mio atteggiamento ha favorito una maggiore creatività, ma ha anche creato una certa confusione. Facendo il confronto con altre diocesi dove le direttive del vescovo sono più decise e più insistenti ho avuto l’impressione di vedere un senso di Chiesa diocesana più forte. Io questo senso non l’ho sempre favorito. Ed è un po’ un rammarico».

Per molti anni è stato anche presidente della commissione Cei per la vita e la famiglia. Come ha vissuto quell’impegno?

«Questo impegno mi ha certamente arricchito perché, attraverso l’opera dell’ufficio nazionale di pastorale familiare, ho toccato con mano una vivacità di proposte e di iniziative alle quali ho cercato di partecipare regolarmente, sia perché mi sembrava doveroso che il presidente della commissione fosse presente, sia perché erano occasioni di incontro con persone e coppie provenienti da diversi parti del nostro Paese ricche di esperienze. Mi sembra che siano stati anni di buona seminagione sul valore della famiglia, sul suo ruolo di soggetto attivo della pastorale, sulla sua importanza sociale che richiede un’attenzione vera da parte dei governi e delle istituzioni pubbliche».

Venticinque anni di episcopato segnati da tre pontificati: Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco. Papi che lei ha avvicinato più volte. Che ricordi ha di questi incontri?

«Ci sono stati degli incontri cosiddetti di massa, penso quando il Papa incontra la Conferenza episcopale italiana oppure durante la Gmg o a certi convegni nazionali. In queste occasioni la presenza del Pontefice offre una certa vivacità e un grande slancio. Gli incontri più personali sono avvenuti durante la visita ad limina, cioè quando i vescovi di una regione si recano a Roma a presentare al Santo Padre la situazione della propria diocesi: in questo caso il dialogo è a tu per tu. Con Giovanni Paolo II questi incontri sono stati molto familiari, anche se un poco formali e veloci perché già malato. Di Benedetto XVI mi colpiva la sua attenzione ad alcune realtà specifiche della diocesi che naturalmente conosceva attraverso la relazione che era stata presentata precedentemente: era molto delicato nell’accennare ad alcuni problemi e nel dare qualche suggerimento. Con Papa Francesco gli incontri sono stati proprio molto rapidi. Oltre alla sua capacità di ricordare dei particolari anche attraverso battute simpatiche che tutti conosciamo, rammento una grandissima cordialità e fraternità».

Entriamo più sul personale: perché ha scelto di rimanere a Cremona?

«Perché oramai qui mi sono pienamente ambientato e le relazioni instaurate in questi anni mi hanno fatto capire che qui ho la possibilità di esercitare il ministero con più facilità. Se fossi tornato a Como avrei dovuto inserirmi in un ambiente nuovo, infatti, pur avendo ancora buone amicizie e ottimi riferimenti, la realtà non è più quella di 25 anni fa. Quindi uno dei motivi è stato che qui pensavo – e posso dire che di fatto è così – di esercitare con più efficacia il mio ministero, di potermi dedicare a quelle cose che sono più congeniali al mio spirito, che non è quello del governare una diocesi, ma di relazionarmi con le persone dal punto di vista spirituale».

Come è stato il passaggio da una vita attiva, di governo, piena di responsabilità e di impegni, ad una invece più distesa, senza più l’assillo dell’agenda?

«Lo dico sinceramente: sto vivendo questo periodo con grande serenità. In un primo tempo ho dovuto cercare dei punti di riferimento che non mi dessero l’impressione del vuoto – prima erano gli impegni che mi sovrastavano, adesso c’è anche molto tempo libero -, però nel giro di due o tre mesi, ho trovato la giusta dimensione: il ministero delle confessioni in Cattedrale tre giorni la settimana, la risposta a determinate richieste, che a volte mi vengono dal vescovo Antonio stesso per una celebrazione o per altri appuntamenti, la continuazione dell’impegno nella commissione regionale di pastorale familiare. E poi la possibilità, gradita, di molti incontri personali, anche con qualche gruppo particolare, ad esempio di divorziati o separati con cui si cerca di fare un certo cammino. Per cui sono molto sereno e nello stesso tempo abbastanza impegnato».

Come ha organizzato la sua giornata da vescovo emerito?

«Al mattino dedico tempo alla preghiera e alla celebrazione della Messa, ma anche allo studio e alla preparazione di corsi di esercizi che frequentemente mi vengono chiesti. Quello della predicazione è un ministero che fin da giovane prete ho esercitato e che mi piace molto, perché, oltre che mettermi in rapporto costante con la Parola di Dio, mi mette in rapporto ad altri sacerdoti, ma anche con gruppi diversi. Questo mi richiede tempo per prepararmi, per studiare. Poi devo dedicarmi un po’ anche alla vita di casa, di famiglia».

Come trascorrerà la giornata del 25 gennaio, giorno anniversario dell’ordinazione?

«La trascorrerò con mia sorella Maria Iune che vive con me da quando sono diventato vescovo e alla quale devo tanta gratitudine e tanto affetto, perché è estremamente attenta, estremamente premurosa nel rispettare le esigenze del ministero. Lei si adatta a queste esigenze, sia nell’organizzare la giornata sia nell’organizzare i tempi più ampi».

Un consiglio o un augurio al vescovo Antonio…

«Il vescovo Antonio è molto delicato, premuroso e attento nei miei confronti. E io gli sono molto grato di questo. Mi ha riservato un’accoglienza davvero fraterna. A volte gli esprimo il mio parere quando me lo richiede nelle diverse occasioni in cui ci incontriamo. L’augurio è che quella dimensione di carica fortemente umana e anche spiritualmente ricca, con cui ha iniziato il servizio a Cremona possa continuare, nella certezza che lo Spirito Santo lo accompagna».