1

La vasca in mezzo alla savana e il Vangelo tra i baobab, la testimonianza di padre Andrea Facchetti

A ridosso delle festività natalizie e nel pieno del periodo dell’Avvento, dell’attesa della venuta del Signore, pubblichiamo la testimonianza di chi sta portando il messaggio di pace oltre i confini della diocesi e dell’Italia. Di seguito, infatti, la lettera scritta da padre Andrea Facchetti, missionario Saveriano originario di Viadana che dal 2012 opera in Mozambico.

Dieci anni, un ponte, cinque biciclette

Non è la prima volta che faccio un trasloco in bicicletta. Premetto che non lo faccio per una ragione di etica ambientale, nella quale ad ogni modo credo, oppure perché ami particolarmente la bicicletta che, ad ogni modo, amo. È solo per una questione di pura necessità. Ma andiamo con ordine, perché di mezzo ci stanno dieci anni, un ponte e cinque biciclette.

Il ponte è quello sul fiume Zambesi che congiunge le due sponde di Sena e di Mutarara. Lungo circa quattro chilometri, fu costruito negli anni ’30 del secolo scorso in territorio portoghese dagli inglesi che, attraverso la linea ferroviaria che dal Malawi arriva al porto di Beira, realizzavano l’ambizione di uno sbocco sull’oceano Indiano per le colonie dell’Africa australe. Le cinque biciclette che passano sul suddetto ponte, un pomeriggio di fine luglio, caricano scatole e valigie. Le mie. Dentro scatole e valigie ci stanno dieci anni di missione. I miei dieci anni di Africa.

Perché, allora, le biciclette? Perché l’unica possibilità per attraversare lo Zambesi è il ponte. E il ponte è ferroviario. Sulle sue rotaie passano ogni giorno tonnellate e tonnellate di carbone che dalla provincia di Tete, regione centrale del Mozambico, passando per il porto di Beira, sono dirette principalmente in India e in Cina. A lato della ferrovia, sessanta anni fa, venne costruito un passaggio pedonale sul quale, facendo attenzione alle travi mal poste o danneggiate, passano persone e bici. Con la beffa di vedersi passare accanto per andare altrove le ricchezze del proprio territorio. Così andava il mondo in epoca coloniale, tra la prima e la seconda guerra mondiale. Così continua ad andare il mondo nei tempi dell’economia estrattiva, mentre si combatte la terza guerra mondiale a pezzi.

Charre, la calamita

Padre Facchetti

Trasloco in bicicletta per tornare di nuovo a Charre. Dopo soli otto mesi a Sena, comunque belli e anche abbastanza tranquilli, per una serie di avvicendamenti che ci hanno interessati come missionari saveriani in Mozambico, mi viene chiesto di tornare di nuovo dove ero stato anni fa.

Charre è una calamita imprevista che fa tornare a sé all’improvviso. Charre è un fiume carsico, che riaffiora in superficie dopo avere corso un tratto sotterraneo. È la terza volta che ci torno in dieci anni. Prima tra il 2014 e il 2015. Poi, dopo i cinque anni a Chemba, alcuni mesi lo scorso anno per dare una mano ad un confratello che era rimasto solo. Di nuovo, stavolta, per rimanerci.

Charre è l’Africa rurale, Charre è i baobab centenari che si alzano imperiosi in mezzo alla savana che in questi mesi si tinge di giallo in attesa delle piogge. Charre è la gente semplice, che vive di agricoltura, allevando capre e mucche, che ancora si toglie il cappello quando ti incontra per strada, che ti stringe volentieri la sua mano destra incallita dalla zappa. Charre è dove manca un po’ tutto in termini di alimentazione, strade, scuole, ospedali. Però, per non so quale arcano dell’esistenza umana, non manca il sorriso e la voglia di vivere. Charre è la realtà un po’ meno facile che come saveriani abbiamo qui in Mozambico, quella anche un po’ più povera, con problemi seri di comunicazione e di mobilità. I dieci metri quadrati tra libreria e la veranda sono gli unici della casa dove si ha rete. Finalmente, l’anno scorso, dopo anni di attese e promesse, è arrivata l’energia elettrica.

Charre è una parrocchia immensa, una fascia di 200 chilometri tra le rive del grande fiume Zambesi e le montagne rocciose che fanno da confine col Malawi. Noi siamo in tre: Apollinario, João ed io. Un messicano, un brasiliano e un italiano in mezzo alla savana. A Charre abbiamo anche uno studentato che accoglie una sessantina di ragazzi che qui vivono e sono accompagnati durante l’intero anno scolastico. Sono figli di contadini, provenienti da famiglie umili. La scuola diventa una delle poche opportunità per alzare la testa. Per scendere dalle montagne, per oltrepassare il fiume. Ed aprirsi al mondo.

Tra il fiume e le montagne

Le comunità che compongono la parrocchia sono una quarantina. Abbiamo appena terminato di incontrarle tutte quante per l’ultima volta prima che inizi la stagione delle piogge. Si è accolti come ospiti attesi da tempo, si ascolta la vita della gente, si crede di annunciare il Vangelo e ci si accorge che ci è annunciato, si danza mentre si prega, si mangia polenta e gallina con le mani, ci si lava come si può, si dorme per terra in una chiesetta o in una capanna. Si entra nel cuore dei poveri, mentre loro sono già entrati nel tuo.

Raggiungere le comunità è quasi sempre un’avventura. Panadza e Donça si trovano nell’area di confluenza tra lo Chire e lo Zambesi. Per arrivarci si deve guadare un piccolo fiume in canoa. Per quattro mesi all’anno queste terre rimangono sommerse dalle acque. Ad aprile, quando le acque si ritirano, la popolazione che si era rifugiata in una zona più alta, torna nelle zone basse, dove la terra è più fertile, per coltivare soprattutto il mais e i fagioli. Ogni anno ricostruisce le sue capanne e la sua chiesetta. Che, ovviamente, è una capanna.

Leva, Zuze, Madzalamunda e Chulu sono quattro comunità di montagna, a poche centinaia di metri dal confine col Malawi. A causa della pandemia – in seguito alla quale per quasi due anni il governo ha proibito le celebrazioni – e a causa delle strade pessime impercorribili per vari mesi, erano tre anni che un prete non arrivava là. La rete del telefono in montagna non arriva. L’unico modo per comunicare è scrivere una lettera che consegno ad una persona di passaggio. Nella lettera avviso quando salirò per incontrare le comunità. Due settimane dopo, al mio arrivo, con un po’ di meraviglia, constato che le comunità sono ancora vive. Il mese successivo, parto di nuovo un sabato mattina all’alba, dormo per terra in una chiesetta e torno domenica sera per incontrare di nuovo tutte e quattro le comunità. «È la fede dei poveri che mi fa ricco», scrivo sul diario.

Annoto sul diario anche la storia di una signora la quale, durante la confessione – che oltre ad essere un sacramento è anche un laboratorio antropologico – mi racconta che soffriva di un terribile mal di testa. È andata dal “curandeiro”, lo stregone. Nella seduta il curandeiro, dopo un esame approfondito, conclude che il dolore è dovuto a quattro chicchi di granoturco che, non si sa per quale motivo, sono andati a conficcarsi nel lato sinistro della testa, mentre altri tre si sono infilati nel lato destro. Maledetti i chicchi di granoturco che non stanno al loro posto. Comunque, da quando, con un sortilegio, il “curandeiro” è riuscito ad asportarli, la signora sta decisamente meglio. «Signora, ma lei ci crede?» le chiedo. «Padre, li ho visti!», risponde felice e rasserenata. Come, se appunto, le avessero tolto un peso dalla testa.

Distanze

Per arrivare nelle tre comunità che si trovano all’estremo opposto della parrocchia, bisogna percorrere 200 km di strada sterrata in otto comodissime ore di jeep tra polvere, sassi e buche. Data la distanza, si va in due e si sta fuori qualche giorno. Sono zone dove la lingua parlata è un’altra, il Nyungwe, ma dove si capisce il Chisena, la lingua che parliamo. La poligamia qui è più radicata e diffusa che altrove. Per un uomo, essere cristiano vuol dire andare controcorrente e avere il coraggio di mettere in discussione i dogmi sociali della cultura di appartenenza.

A causa delle distanze, c’è il progetto di dividere la parrocchia di Charre e di crearne una nuova a Dôa che, ovviamente, non è quella dei mondiali che ha la “H” in mezzo e qualche migliaio di dollari di PIL pro capite in più. Dôa dista da Charre 120 km, è lontana dal fiume Zambesi e si trova sulla linea ferroviaria del carbone, oltre che su un altopiano sassoso. A Dôa, qualche anno fa, abbiamo acquistato un terreno e abbiamo cominciato a costruire una casetta che ci serve come punto di appoggio. Il problema è che ancora mancava l’acqua. A metà settembre vado a Dôa per fare due pozzi: uno a pompa sommersa per la nostra casa e uno manuale per il villaggio. Dalla città arriva l’impresa contattata con i macchinari necessari per individuare la presenza di acqua e per scavare. Dopo una settimana estenuante di ricerche nel terreno e nell’area circostante, dopo avere scavato fino ad ottanta metri, di acqua neppure una goccia. Il capitolo “Acqua a Dôa” rimane aperto e sarà necessario studiare come farla arrivare da più lontano.

Guerra, dieci anni fa e ancora oggi

Dieci anni fa, all’inizio di settembre, arrivavo in Mozambico. Pochi giorni dopo, il 4 di ottobre, ricorrevano i venti anni degli accordi di pace, firmati a Roma, con la fondamentale mediazione della chiesa cattolica e del governo italiano, che ponevano fine alla guerra fratricida tra Frelimo e Renamo che in sedici anni (1976-1992) aveva causato più di un milione di morti. Nelle settimane successive, nella regione centrale del paese, dove lavoriamo noi, ricominciava la guerriglia a bassa intensità tra Frelimo e Renamo, terminata nell’agosto 2019 con un nuovo accordo di pace.

Nel frattempo, nell’ottobre 2017 un’altra guerra iniziava nella regione settentrionale di Cabo Delgado, a circa 800 km da dove ci troviamo. Guerra torbida, fin dagli inizi: jihadismo, povertà endemica, ricchezza di gas e altre risorse naturali, fragilità dello Stato, corruzione, investimenti miliardari delle multinazionali del gas, aspettative frustrate delle comunità locali si intrecciano in una situazione sempre più caotica. Negli ultimi mesi gli attacchi jihadisti si stanno spostando verso sud, nella regione di Nampula. È così che, in uno di questi attacchi, una notte di settembre, è stata uccisa suor Maria, comboniana italiana, da sessant’anni al servizio del Vangelo e di questo popolo. Il suo sangue si unisce a quello delle migliaia di vite uccise e alla sofferenza del milione circa di persone rifugiate, fuggite dalla guerra.

Succede anche che pochi giorni fa, il 13 novembre, a qualche decina di km da dove tutto questo avviene, in mezzo all’oceano, sia partito, da una piattaforma galleggiante di 432 metri di lunghezza di proprietà dell’italiana ENI, il primo cargo di gas naturale liquefatto. È il primo in assoluto nella storia del Mozambico che dovrebbe diventare nei prossimi anni il 3° produttore di gas naturale in Africa e il 9° al mondo. Guerra permettendo, dato che solo alcuni giacimenti sono off-shore, mentre gli altri sono sulla terraferma. La sola ENI promette di produrre 3,4 milioni di tonnellate di gas all’anno. Assieme all’ENI ci sono la francese Total, la statunitense Exxon Mobil la cinese Cnpc, la giapponese Mitsui, la portoghese Galp. I loro investimenti nell’area arrivano, fino ad ora, alla cifra astronomica di 55 miliardi di dollari. Si calcola che nelle casse dello stato mozambicano solo con il gas, nei prossimi 25 anni entreranno circa 20 miliardi di dollari. Per ora il Mozambico rimane il 7° paese più povero al mondo secondo l’indice di sviluppo umano, è posizionato tra i primi trenta più corrotti del pianeta ed è classificato come regime autoritario secondo l’indice di democrazia.

Il Vangelo tra i baobab. Che non è una vasca in mezzo alla savana

Un pomeriggio, mentre sto visitando i poveri e i malati, noto a distanza una cosa che mi lascia incuriosito: una vasca da bagno… in mezzo alle capanne. «Cosa ci fa una vasca da bagno in mezzo alle capanne?» chiedo ad Emilio, caro amico che mi accompagna. Ci avviciniamo. È una vasca degli anni ’60 quando, in piena epoca coloniale, vivevano qui a Charre alcune famiglie di coloni portoghesi. Sono passati più di cinquant’anni, due guerre – quella di liberazione e quella civile – e la vasca da bagno è ancora lì, appoggiata su alcuni mattoni, in mezzo alla sabbia. Lì di fianco c’è una pila di mattoni cotti. Probabilmente la vasca serve per contenere l’acqua usata per fabbricare manualmente i mattoni. Di cinquecento anni di colonialismo, qui a Charre, rimane una vasca in mezzo alla savana.

Penso a Dio, che è qui da sempre. Penso al Vangelo – che qui tra la sabbia e i baobab è stato aperto per la prima volta sessant’anni fa – che non è estraneo e accidentale come una vasca in mezzo alla savana, perché ha messo radici nel cuore delle persone. Penso al cammino delle comunità cristiane. Penso alle storie della gente quando racconta commossa gli anni della guerra civile alla fine degli anni ’80: le suore rapite, i missionari che dopo un attacco portavano i malati in ospedale e, quando la guerra imperversava sempre più violenta, andarono a vivere con la popolazione nei campi di rifugiati nel vicino Malawi.

Penso al nostro lavoro in questa terra. Penso a questi miei dieci anni, a quanto sto imparando, prima impegnato con Giustizia e Pace nelle questioni della terra e delle foreste, poi con i ragazzi nello studentato e nella scuola, ora come parroco di campagna, o meglio, di savana. Penso a quanto la vita è buona con me, a quanto il mio cuore si dilata per mettersi dentro la vita degli altri, mentre mi accorgo che gli altri hanno già fatto spazio nel loro per mettersi dentro la mia. Penso alla vita, che ci è donata per donarla agli altri, al bene che ciascuno riceve e al bene che ciascuno semina accanto a sé, che ha il profumo di una rivoluzione silenziosa. Credo fortemente e radicalmente in questa potenza del Vangelo e del bene che trasformano e rivoluzionano i cuori e il mondo. Credo che in tutto questo abiti Dio. Credo che tutto questo sia Dio.