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La testimonianza di don Angelo Rossi, cappellano dell’ospedale di Treviglio-Caravaggio, in corsia accanto a medici e malati

Non ci sono solo medici, infermieri, operatori sanitari negli ospedali del Nord Italia in piena crisi. Ci sono anche loro, i sacerdoti. Molti sono ricoverati, tantissimi in quarantena. Qualcuno, come i cappellani, è in prima linea per sostenere i malati e le loro famiglie. Un compito difficile, come ci racconta con parole discrete ma commoventi don Angelo Rossi dal piccolo ospedale di Treviglio: la scorsa settimana ci sono stati 75 morti in un giorno e lui ha potuto benedire le salme – una a una – dietro un vetro. Porta i sacramenti a tutti coloro che lo chiedono e sempre più frequentemente sono infermieri e medici che domandano una preghiera a voce bassa, magari di sfuggita in corridoio, con gli occhi gonfi di stanchezza e pianto. La sua giornata è fatta di brevi incontri nelle stanze dove ci sono i malati: la recita di qualche preghiera, una benedizione, il sacramento della confessione o dell’eucarestia. In molti chiedono l’unzione degli infermi, ma don Angelo si arrabbia quando viene associata solo ai moribondi. «È il sacramento della guarigione, in cui si chiede al Signore la forza di affrontare un momento di fragilità fisica o spirituale, non solo l’ultimo gesto da fare prima di andarsene. Se fosse conosciuto per quello che è, questo gesto sarebbe forse d’aiuto a molte più persone».

Le giornate sono frenetiche, non ci si riposa mai. Di notte, dice, si fanno incontri commoventi: il neo–papà che scende in cappella a ringraziare perché nonostante tutto la sua bambina è nata e sta bene, la guardia giurata che dopo un turno interminabile fatto di divieti d’ingresso ai parenti dei pazienti in fin di vita, crolla e chiede di confessarsi dopo anni di lontananza da Dio. E poi ci sono i dialoghi con i malati. I più gravi riesce a vederli di meno, la terapia intensiva gli è interdetta a meno di casi eccezionali: i medici gli hanno chiesto di limitare gli accessi nei reparti dove si trovano i malati Covid per tutelarlo (è l’unico sacerdote in forze all’Ospedale), ma sanno che se ci fosse bisogno lui è lì. Giorno e notte.

Non è sempre facile consolare. A volte ci si sente come formiche di fronte all’emergenza. Come quando incontri nei corridoi un’infermiera in lacrime che chiede di pregare per un paziente o la farmacista che singhiozza perché ha dovuto dire a un anziano cliente che vive con l’ossigeno che la bombola che lo tiene in vita non c’è. Sono momenti durissimi.

«Eppure tutto questo è la mia occasione di convertirmi, di ricordami ogni giorno che l’uomo è davvero poca cosa se un virus tanto piccolo riesce a mettere in ginocchio intere Nazioni. Ecco, ho riscoperto che siamo creature, bisognose di un amore più grande. In queste settimane ho incontrato tante persone, qui in ospedale, piene di domande grandi sul senso sulla vita e del dolore, sulle scelte da compiere che a volte sono strazianti. Sono uomini e donne da cui imparo ogni giorno, perché il loro cuore è pieno di interrogativi ma totalmente dedito alla cura di chi arriva, proprio come avrebbe fatto Gesù». Ci tiene a sottolineare che sono loro i veri protagonisti di queste settimane, ma che sente una sorta di fastidio quando vede che tutti li chiamano “eroi”, quasi che solo nell’emergenza ci si accorgesse della preziosità del loro lavoro. «Sono in questo ospedale da settembre ma posso dire con certezza che questi medici, infermieri, guardie giurate, donne delle pulizie, operatori, volontari sono dediti al loro lavoro ogni giorno allo stesso modo, anche prima dell’emergenza». Stando davanti a loro – dice – ha riscoperto il valore dell’essere al servizio, che è una vera e propria vocazione. «Servire i più fragili, i malati, è un privilegio. Mi sento chiamato ad essere qui e sono certo che ogni volto che incontro dentro questi padiglioni ha il volto sofferente di Gesù».

Don Angelo ha il raffreddore, spera di non essersi ammalato per poter essere ancora vicino alla sua gente. Non ha più l’ausilio dei volontari, a cui è in questo momento proibito entrare in ospedale. Spera nell’arrivo di un altro sacerdote e intanto si affida al buon Dio. Gli chiediamo se si sia mai sentito solo o scoraggiato. Risponde di no, perché intorno a lui c’è un popolo, una compagnia di amici e parrocchiani che gli scrivono e lo sostengono anche nelle giornate più pesanti. «La gente sta riscoprendo il valore dell’essere comunità. Sono sicuro che da tutto questo usciremo maturati. In umanità e fede».