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Ius soli: la cattiva informazione genera inutili paure.

Cristina Molfetta, antropologa culturale, ha lavorato per molti anni all’estero nella cooperazione internazionale, soprattutto in campi profughi. Rientrata in Italia dal 2008, collabora e lavora prima con l’Ufficio pastorale dei migranti di Torino e, da quasi cinque anni, con la Fondazione Migrantes della CEI a livello nazionale, nella stesura annuale del Rapporto Caritas – Migrantes, lo strumento che offre elementi di conoscenza e valutazione del fenomeno della mobilità nelle sue forme, sia degli italiani che continuano a emigrare all’estero, sia delle persone di diversa nazionalità che arrivano in Italia come immigrati, come richiedenti asilo o potenziali titolari di protezione internazionale.


In Parlamento forse si discuterà di  “ius soli”. Chiediamo a Cristina Molfetta  (Fondazione Migrantes della Cei) com’è la versione italiana, visto che in Europa coesistono modelli differenti?
«Anzitutto è uno ius soli estremamente temperato. In questi giorni di dibattito sento dire cose molto strane… tipo: “È importante non dare la cittadinanza a qualcuno solo perché è nato nel territorio italiano”. Questa versione dello ius soli allo stato “puro” in Europa non è presente e tantomeno nella proposta italiana. Forse si concretizza solo negli Stati Uniti.
Tutte le diverse versioni di acquisizione della cittadinanza presenti in Europa sono in realtà versioni temperate, che significa che non basta nascere in un luogo geografico per avere la cittadinanza di quel Paese. Anche la proposta italiana si inserisce in questo solco dello ius, e in realtà è anche molto moderata, perché viene temperata rispetto a due principi fondamentali: da una parte attraverso gli anni di frequenza della scuola del minore nato o arrivato in Italia (almeno un ciclo completo di studi, cinque anni regolari di scuola) così che si consolidi il processo di inculturazione con compagni che frequenta ogni giorno, studiando sui nostri programmi, con maestre che lo accompagnano. Cinque anni di convivenza scolastica chiaramente fanno molto di più di un semplice parto in ospedale… Un secondo principio è chiedere che almeno un genitore abbia un permesso come lungo soggiornante in Italia. Forse le persone non si rendono conto di cosa significhi avere questo permesso: per ottenerlo occorre avere avuto una residenza continuativa in Italia per dieci anni e più, occorre un determinato reddito, stiamo parlando di persone che  hanno avuto un lungo processo di inserimento sociale e culturale all’interno del Paese. In virtù di queste richieste si ritiene che dei genitori siano in grado di traghettare i figli verso l’inserimento positivo nel Paese. Sono entrambe misure che definirei molto caute».

Perchè allora assistiamo ad una repentino calo del consenso del rispetto al provvedimento? È solo per paura del terrorismo?
«È come se si generasse  un corto circuito, dovuto alla cattiva informazione sul mondo dei migranti e dei richiedenti asilo, che vengono spesso confusi. Così come si confonde chi arriva con gli sbarchi nel nostro Paese e chi è qui da tanti anni come immigrato stabilmente inserito. A questo si aggiunga una scorretta rappresentazione della tragedia del terrorismo, agitata dinanzi all’opinione pubblica.  C’è una indisponibilità a capire che con lo ius soli stiamo parlando di persone che sono inserite nel nostro Paese da molti anni, di cui addirittura i cittadini italiani che li conoscono si stupiscono che non siano italiani. Ho in mente tanti casi di compagni di scuola che sono cresciuti insieme, perché coetanei, e che sembra incredibile considerare stranieri. Magari lo  scoprono solo nel momento in cui vanno insieme in gita scolastica o in attività in cui avere o non avere la carta d’identità può essere in qualche modo utile».

Dinanzi al fenomeno emergente dell’immigrazione, crede esista un serio rischio di islamizzazione della società italiana?
«Io non credo. Questa è un’altra delle cose di cui le persone hanno molta paura, ma perché non conoscono i dati. Capisco che accedere ai dati chieda alla gente di passare attraverso la razionalità. Invece spesso la gente è come in preda a dei fantasmi, che evidentemente con la razionalità hanno poco a che fare. La nostra immigrazione storica in Italia, fatta di circa cinque milioni di persone (noi siamo un Paese di sessanta milioni di abitanti), è solo in minima parte di religione islamica. La maggioranza degli immigrati storici sono in realtà cittadini dell’est Europa, di religione cristiana. Oserei dire  che il problema dell’islamizzazione sia un’eventualità ben lontana dalla realtà».

Dietro il problema della cittadinanza, il grande tema del confronto culturale sull’identità…
«Da antropologa penso che bisognerebbe lasciare la parola a chi vive questa situazione. È sconcertante che intervistando giovani che per molti anni hanno frequentato la scuola in Italia, che spesso non sono mai neanche tornati nei paesi di origine dei loro genitori, dicano che si sentono fondamentalmente italiani. Questo è il luogo dove crescono, qui hanno i loro amici, e noi dovremmo essere tanto intelligenti da capire che questi sono italiani con una marcia in più: parlano un’altra lingua, conoscono all’interno delle loro famiglie un’altra tradizione, e questo in realtà è una grande ricchezza. Avremmo tutti gli elementi per capirlo: noi siamo stati un grande Paese di emigrazione, ognuno di noi in famiglia ha parenti o amici che oggi o in passato si sono mossi in altri Paesi. Dovremmo avere imparato che stare a lungo in un luogo vuol dire gradualmente sentirsi appartenenti, pur conservando i tratti della provenienza. Non si capisce perché se si rivendica questa capacità per sé non si riesca ad accettare che chi nasce qui, ed ha una tradizione familiare diversa, potrebbe essere un ottimo cittadino che addirittura ci arricchisce con competenze linguistiche, sociali, culturali diverse».

Tanti giovani, poi radicalizzati, erano però da anni inseriti nel contesto sociale. È possibile un reale processo di integrazione e a quali condizioni?
«Io penso di si, però credo che dobbiamo smettere di giocare sporco. Credo che l’estremismo non abbia nulla a che vedere con il riconoscimento della cittadinanza, ma piuttosto con la non reale opportunità delle persone di inserirsi in quella società. Diciamo che l’Italia, che finora ha fatto meglio di altri Paesi, è riuscita in questi anni  a portare avanti un processo di integrazione silenziosa in cui le persone erano molto diffuse sul territorio. Non sono stati creati dei ghetti, e ciò ha aiutato. Adesso siamo ad un punto critico, con un’immigrazione storica da tanti anni, persone che sono tra noi da tanto tempo, le domande di cittadinanza aumentano ogni anno… Come non capire che non valorizzare chi è qui – anche con un riconoscimento della cittadinanza – può essere percepito come la volontà di mantenere comunque una distanza tra chi è nato qui e chi ci arriva? Io credo che sia proprio il perdurare delle disparità a fare problema. Se un ragazzo è bravo a scuola, non importa da quale Paese sia arrivato: deve accedere alla borsa di studio perché sarà comunque un nostro vantaggio se riuscirà a mettere i suoi talenti a servizio della società. Più togliamo degli ostacoli, più costruiremo una società in cui non esista la separazione tra un “noi” e un “loro”. Dopo di che, le regole sono uguali per tutti: se uno delinque paga perché delinque, non deve esserci un eccesso di buonismo. In questa uguaglianza di regole, riconoscendo che chi arriva ha degli svantaggi strutturali, c’è un momento in cui questa distanza viene colmata, e a quel punto ognuno è responsabile di quello che fa».

Un consiglio vincente per favorire il processo di integrazione? 

«Provare a incontrarsi, fidandosi di più di ciò che si conosce incontrando direttamente le persone, superando le paure che ci vengono instillate ogni giorno ma che non passano dalla nostra diretta esperienza. Incontrare il più possibile le persone le fa scoprire simili a noi. Le sirene della paura stanno attanagliando l’Europa, e la paura non è una buona consigliera».

Le capita di sentirsi sola in questo suo lavoro?
«No, lavoro in realtà con molta gente. Mi capita di sentirmi in minoranza: in realtà quelli che ci credono sono tanti, ma la sensazione è questa. Spero che il mio Paese possa attraversare questo passaggio cruciale. Dalla riflessione sulla mia esperienza concludo: o siamo in grado di costruire un futuro diverso credendoci, o l’idea di chiudere le porte e di escludere qualcuno non ci porterà da nessuna parte».