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Intervista esclusiva a mons. Pizzaballa, neo vescovo di Gerusalemme

Anche i vescovi Antonio e Dante prenderanno parte, nel pomeriggio di sabato 10 settembre a Bergamo, all’ordinazione episcopale di padre Pierbattista Pizzaballa, a lungo custode di Terra Santa, scelto dal Papa come amministratore apostolico del Patriarcato di Gerusalemme dei Latini ed elevato in pari tempo alla sede titolare di Verbe con dignità di arcivescovo. Padre Pizzaballa, che si è preparato alla consacrazione sostando nei giorni scorsi presso il Santuario di Caravaggio, la sera di lunedì 12 settembre, alle 20.30, presiderà una solenne Eucaristia a Brignano Gera d’Adda, paese di origine dei suoi genitori e dove ancora ha parenti e amici.

 

L’ordinazione di padre Pizzaballa

La Messa di ordinazione episcopale, che avrà luogo nella Cattedrale di Bergamo, sarà presieduta dal card. Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, organo della Santa Sede che sovrintende a nome del Santo Padre sui territori del Medio Oriente e nel rapporto con le Chiese Ortodosse. Con lui concelebreranno Sua Beatitudine Fouad Twal, Patriarca emerito di Gerusalemme, e una trentina di Vescovi, tra cui i Nunzi Apostolici in Israele, Palestina, Giordania, Libano, Cuba, Singapore, Canada. Tra i presenti anche l’Arcivescovo di Akka dei Greco-Melkiti, l’Arcivescovo maronita di Haifa, il Vicario Apostolico dell’Arabia e quello di Istanbul, oltre ad alcuni Vescovi nativi bergamaschi. Naturalmente non mancherà il vescovo di Bergamo, mons. Francesco Beschi, e gli altri presuli lombardi, con il vescovo di Cremona, mons. Antonio Napolioni, e l’emerito, mons. Dante Lafranconi.

In occasione dell’ordinazione episcopale di mons. Pizzaballa, il cremonese don Antonio Moro, suo cugino, gli ha regalato il calice appartenuto a don Vincenzo Moro, prete di Brignano Gera d’Adda morto nel 1943 durante la campagna di Russia, mentre svolgeva il ministero di cappellano militare. Tale calice era stato offerto a don Moro dalla sua parrocchia di Brignano in occasione della Prima Messa, nel 1933. Sulla base l’iscrizione dettata da mons. Cesare Donini “Tibi omniaa dicimus ut vincat tuus amor omnia” (ti auguriamo buona fortuna (ogni bene) perché vinca il tuo amore), con alcune lettere a formare la frase “Ad vinc Moro”.

Il libretto della celebrazione

L’intervista esclusiva a Pizzaballa

Da domenica 4 a sabato 10 settembre l’arcivescovo Pizzaballa è stata ospite presso il Santuario S. Maria del Fonte di Caravaggio. In questa occasione ha rilasciato una intervista esclusiva al nostro portale.

Eccellenza, Lei finora è noto nella Chiesa e nel mondo come il custode della Terra Santa: come cambia ora il suo servizio in quella Chiesa e in quel territorio?

«Cambia molto. Io ho cessato il mio servizio di custode già qualche mese fa. Sono due prospettive diverse. Il territorio è simile, ma il compito del custode è più legato alla presenza universale della Chiesa a Gerusalemme, all’accoglienza dei pellegrini e tutto ciò che riguarda il pellegrinaggio e per quanto riguarda la vita pastorale egli è soprattutto impegnato nel mondo libanese e siriano, meno in Terra Santa. Il vescovo di Gerusalemme ha il compito di coordinare tutte le diverse attività pastorali, soprattutto in Terra Santa e in Giordania. Sono territori diversi, ma anche prospettive diverse. Il vescovo è il pastore e nella figura del pastore appunto la Chiesa si deve ritrovare».

Qual è oggi il volto e l’identità della Chiesa di Gerusalemme di cui Lei diventa pastore. E come la vede collocata nel più ampio contesto della Chiesa universale e del mondo in cui viviamo?

«La Chiesa di Gerusalemme, come sempre tipico nella realtà di Terra Santa, ha un volto pluriforme e poliedrico. Sono diverse zone pastorali, perchè comprendono un territorio molto vasto: la Giordania, Israele, Palestina e Cipro, che sono regioni pastorali completamente diverse, e anche tipi di popolazioni completamente diverse: incontro popolazioni giordane, incontro popolazioni palestinesi, incontro con israeliani, per non parlare di Cipro. Inoltre sono arrivate centinaia di migliaia di immigrati: anche noi abbiamo immigrati. La differenza è che, da noi, sono in gran parte cattolici. Essere cattolico è diverso da essere essere cristiano. Abbiamo circa 300 mila nuovi immigrati cattolici (filippini, latinoamericani, indiani) che chiedono una nuova attenzione, un nuovo modello di vita ecclesiale e comunitaria. Poi ci sono i pellegrini che vengono da tutto il mondo. C’è poi il dialogo interreligioso che è parte integrante della vita della Chiesa: il rapporto con gli ebrei e con i musulmani non è un rapporto teorico-culturale, ma è di vita, perché noi viviamo in mezzo a loro. Infine c’è il rapporto con le altre Chiese, noi non siamo gli unici cristiani: ci sono i cristiani ortodossi, ci sono i cristiani siriaci, i copti, ecc. La Chiesa cattolica di Gerusalemme, che sono chiamato a presiedere nella carità, deve fare i conti con tutte queste realtà pluriformi».

Quindi, una Chiesa come la Sua, che vive in una terra da sempre caratterizzata dalla presenza pluralistica di popoli e fedi differenti, che cosa può dire alle nostre comuità, civili ed ecclesiali, che spesso in alcune loro componenti si sentono assediate dalla presenza di profughi e di migranti?

«Noi molto spesso corriamo il rischio di partire dai bisogni e fermarci ai bisogni, lasciandoci soverchiare dai bisogni e da tutto quello che vi è legato: le paure, i cambiamenti, ecc. Invece dobbiamo partire dalla nostra esperienza di fede: essa deve illuminare anche i bisogni, le realtà e le paure che ci sono e che sono spesso inevitabili, che sono parte integrante della vita umana e che dunque non possiamo negare. La Parola di Dio e l’esperienza di fede deve illuminare tutto questo. Per cui per il cristiano l’altro è una proposta, non una minaccia. Bisogna affrontare tutti questi cambiamenti! Papa Francesco dice che non siamo in un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca. Come cristiani e come credenti dobbiamo quindi entrare in questa realtà nuova non rimpiangendo il passato, ma portando la nostra esperienza di fede in questa novità, dove ci sono aspetti positivi e aspetti negativi, dove c’è del bello e dove c’è il brutto, dove c’è il male e dove c’è il bene. Noi lì dobbiamo portare la nostra esperienza di fede e costruire. Non dobbiamo fermarci alla paure, ma dare un’indicazione di speranza. Se no su che cosa si basa la nostra fede? Detto questo, noi come cristiani siamo minoranza in Medio Oriente. Siamo l’1% dell’intera popolazione, forse neanche. Non bisogna aver paura di affermare la propria identità cristiana, non bisogna aver paura di dire a chi noi apparteniamo».

Che cosa possiamo fare oggi per aiutare le comunità cristiane della Terra Santa?

«La prima cosa da fare è pregare. Io ricordo una frate che era stato rapito in Siria e che era in mano ai ribelli: dopo che fu liberato mi disse che lui sentiva la forza della nostra preghiera. Questo mi colpì, perché in generale noi usiamo l’espressione “bisogna pregare”, però l’intendiamo come qualcosa di astratto e vago. Invece la preghiera ha una sua forza!
Poi bisogna anche molto concretamente sostenere queste popolazioni, quello che resta delle popolazioni cristiane. Soprattutto con il pellegrinaggio. Pellegrinaggio che è sicuro! Il pellegrinaggio, che non è assolutamente pericoloso come la gente pensa, porta concretamente tanto lavoro a tante famiglie».

Prevalentemente noi conosciamo la Terra Santa proprio attraverso l’esperienza dei pellegrinaggi. Come interpreta questa peculare esperienza cristiana?

«Io considero il pellegrinaggio in generale e i santuari (quello di Caravaggio come quelli in Terra Santa) oasi spirituali che, inseriti dentro il tessuto della Chiesa, sono un polmone molto importante dove tanta gente può arrivare in assoluta libertà, senza confini parrocchiali o geografici o culturali o religiosi, e lì fare esperienza di un incontro: che può essere incontro per la Riconciliazione, incontro semplicemente dove portare la propria sofferenza, le proprie domande, le proprie attese. Sono luoghi molto importanti anche dal punto di vista ecclesiale, dove poter incontrare persone che altrimenti non incontreresti mai. In genere siamo noi che dobbiamo uscire per cercare. Papa Francesco dice sempre che dobbiamo cercare. Il santuario è un luogo dove invece si viene. Occorre “usare”, in senso buono, questa esperienza dell’arrivo di tante persone per permettere loro di fare un incontro».

Qando si parla di Terra Santa non possiamo non pensare al pluridecennale conflitto tra israeliani e palenstinesi, di cui oggi sentiamo parlare molto poco sui mass-media. Qual è attualmente la situazione? Come intende lei questo silenzio?

«Nel cosiddetto conflitto israelo-palestinese adesso è tutto fermo. Nel senso che non c’è il conflitto, ma non c’è neanche la pace: dal mio punto di vista è una situazione grave! La totale mancanza di comunicazione tra le due parti  sta generando sempre una maggiore sfiducia tra le due popolazioni. Questo è dovuto anche alla debolezza dei due leader. E questa non è una cosa buona, perché per costruire la pace ci vuole un consenso che, invece, si sta sfibrando e affievolendo. Si parla poco di questo conflitto per diverse ragioni. La prima è che intorno alla Terra Santa, soprattutto in Siria e Iraq, ci sono sostituzioni molto più gravi che assorbono tutta l’attenzione: penso soprattutto alla guerra siriana. L’altro motivo è che il conflitto israelo-palestinese dura da decenni e non è più una novità, quindi ci si stanca anche di parlarne senza qualche elemento nuovo. E poi anche un ginepraio dove nessuno, nella comunità internazionale, ha più voglia di entrarci. Per cui è stato messo un po’ da parte, agevolando in questo modo quelli che remano perché non ci sia alcun processo di pace».

Quale significato e rilevanza ha avuto l’incontro di preghiera del 2014 che ha visto protagonisti il Vaticano, il presidente israeliano Peres, il presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen, il papa e il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I?

«Lo scopo dell’incontro che è stato tenuto a Roma non era quello di far scoppirare la pace, perché nessuno era così ingenuo che dopo quell’incontro sarebbe iniziata una nuova era positiva e pacifica. L’incontro era un gesto. Doveva essere un incontro di preghiera: la preghiera non produce, la preghiera genera. La preghiera non sostituisce l’opera dell’uomo: la preghiera ti dice che cosa fare, ma non fa la cosa per te, la devi fare tu. La pace la devono fare! Quel gesto serviva per far prendere coscienza alla gente e alla comunità comunità internazionale, che se si vuole si può. Il problema del conflitto palestinese non è che non c’è una soluzione: le biblioteche sono piene di proposte diverse, ormai si è discusso tutto! Se si vuole si può arrivare a conclusione su tutto: bisogna volerlo! Quell’incontro di pace, che non è stato semplice da preparare, ha voluto indicare un metodo, cioè che se si vuole si possono superare piccoli ostacoli per arrivare a un incontro».

 

Biografia di mons. Pizzaballa

Pierbattista Pizzaballa nasce a Cologno al Serio il 21 aprile 1965. Da ragazzo intraprende il percorso di formazione presso il Seminario dei Frati Minori. Nel 1990 viene ordinato sacerdote. Viene inviato a Gerusalemme presso lo Studium Biblicum Franciscanum. Dopo aver trascorso un periodo di studi in ebraico moderno e lingue semitiche presso la Hebrew University di Gerusalemme, nel 1998 diviene professore assistente di Ebraico Biblico e Giudaismo presso lo Studium Biblicum Franciscanum e lo Studium Theologicum Jerosolymitanum. Nel 1999 entra in servizio effettivo della Custodia di Terra Santa.

Nel 1995 ha curato la pubblicazione del messale in lingua ebraica ed ha tradotto vari testi liturgici in ebraico per le comunità cattoliche in Israele.

Nel 2004 è nominato Custode di Terra Santa. Il Custode della Terra Santa, Guardiano del Santo Monte Sion e del Santissimo Sepolcro è il Ministro Provinciale (cioè il superiore) dei Frati Minori Francescani che vivono in tutto il Medio Oriente. Egli ha giurisdizione sui territori di Israele, Palestina, Giordania, Libano, Egitto (parzialmente), Cipro e Rodi. Coordina l’accoglienza dei pellegrini che arrivano in Terra Santa (da qui il termine antico “custode”). Ha poi la responsabilità sugli scavi archeologici nei luoghi sacri e delle pubblicazioni soprattutto di studi della Bibbia attraverso la geografia e la storia degli stessi posti in cui gli eventi hanno avuto luogo. Un altro importante compito del Custode è di prendersi cura e sostenere la presenza cristiana in Terra Santa. Infine è responsabile dello “Status quo”, un antico insieme di regole e consuetudini che regolano la convivenza. È stato riconfermato alla guida più volte, divenendo la sua custodia la più lunga dal 1946. Ha terminato il suo incarico il 20 maggio 2016.

L’azione pastorale di padre Pizzaballa si è contraddistinta per equilibrio e spiccata capacità strategica e diplomatica; nella complicata mediazione tra lo stato d’Israele e le autorità palestinesi. La sua voce è stata una delle più ascoltate nell’intricato mondo politico religioso della Terra Santa. Nel maggio 2014 Papa Francesco ha affidato a padre Pizzaballa l’incarico di organizzare l’incontro di preghiera tra il presidente d’Israele Shimon Perez, il presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen e il Papa stesso alla presenza del Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I, incontro svoltosi effettivamente l’8 giugno 2014.

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