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Intervista al vescovo eletto Antonio: «Curiamo la gioia del Vangelo come ci indica Papa Francesco»

Giovedì 26 novembre, per la prima volta, mons. Antonio Napolioni, vescovo eletto, è giunto a Cremona per conoscere mons. Lafranconi, visitare la Cattedrale e il Seminario e incontrare i giornalisti. A margine della conferenza stampa, tenuta nei locali della Curia vescovile, abbiamo rivolto a don Antonio alcune domande. Di seguito la trascrizione dell’intervista audio che, pertanto, mantiene il tono colloquiale.

Nel suo primo messaggio alla Chiesa cremonese, lei ci ha presentato il suo motto “Servire il Signore nella gioia” (dal Salmo 99, 2), ripensando a “quando, giovane educatore scout, scoprii che la gioia del servizio traeva il suo fascino proprio dal Signore Gesù”. Ci potrebbe brevemente narrare l’origine della sua vocazione?

«Intanto confesso che questo motto non l’ho confezionato in questi giorni solo in vista del ministero episcopale, ma è stato il tema dei corsi di esercizi spirituali che ho predicato in questi ultimi anni, quando mi è stato chiesto di fare una sintesi di ciò in cui credevo, ciò che sentivo vero, e ho riletto così la mia vita anche per dialogare con preti e seminaristi. Devo dire che da ragazzo, come tanti ragazzi, c’era la voglia di fare. La voglia di fare manifesta dei talenti e anche un desiderio e un’aspirazione. In che cosa questo desiderio di esprimersi e di realizzarli trovava veramente appagamento. Era il mondo Scout quello che ho frequentato con più passione e si sa che gli Scout sono famosi per i distintivi, per le “patacche”, per i ruoli: era un gioco di ruolo all’inizio, poi è diventata la vita, il “grande gioco della vita” come lo chiamava il fondatore. Fino a scoprire che è la vita che è vocazione: una vita che non può essere più fatta a pezzi: sto bene quando sto con gli Scout, ma poi in famiglia, ma poi con gli amici, ma poi a scuola… A volte, purtroppo, viviamo questi compartimenti stagni che non ci fanno decollare secondo un disegno di Dio. Quando, invece, si scopre che la gioia sta in tutte le piccole cose che si richiamano l’una l’altra e dentro queste piccole cose c’è Lui, un Tu che merita di essere amato più della ragazza con la quale magari avevi fatto un’esperienza, più di quella passione educativa, ti rende abitabile una solitudine, ti rende capace di un distacco. Sono questi alcuni flash di quello che è stato un percorso che poi, a 21 anni, mi ha portato in Seminario. Devo dire con la grazia di un discernimento veloce: io ci ho messo poche settimane a capire che era questa la mia strada. Vi confesso anche che il Signore mi ha dato la grazia di non dubitare mai un momento che la mia vita sarebbe stata quella di essere prete».

Sempre nel suo messaggio, lei dichiara: “dedicherò tanto del mio tempo ai preti, ai diaconi, ai seminaristi”; e, a proposito di questi ultimi, afferma: “ci impegneremo ancora a sviluppare il seminario”. I nostri sembrano essere tempi davvero difficili per il sorgere di vocazioni al sacerdozio. Ha già in mente qualche linea di pastorale per favorire il sorgere di nuove vocazioni?

«Se avessi le ricette sarei Papa, quindi non ho ricette. La passione per i preti e i seminaristi è legata anche al fatto che per ben 17 anni ho lavorato in Seminario e quindi so per esperienza la complessità e la bellezza di questo percorso, e quindi quanto è necessario aver cura delle vocazioni che già abbiamo perché ne vengano altre. È la cura della gioia dei presbiteri: più i sacerdoti, i diaconi, i genitori, i laici consacrati e le famiglie sono felici di essere credenti e lo trasmettono con naturalezza, più le nuove generazioni sentiranno il fascino del Vangelo e di spendere la vita per Cristo. Non credo ci siano altre ricette, se non quella di aver cura quotidianamente della gioia del Vangelo, come dice il Papa».

Ripensando alla sua esperienza di parroco, lei sottolinea la scelta di fare “della comunità cristiana una famiglia di famiglie”: con questa indicazione lei si pone in piena continuità con il vescovo Dante Lafranconi e con le indicazioni del recente Sinodo dei Vescovi sulla Vocazione e Missione della famiglia. Può dirci qualcosa in più su questo suo impegno?

«Faccio solo un esempio: quante volte la nostra pastorale è ritmata, nei tempi e nei modi, a volte sui preti e non sulla vita delle famiglie. Gli orari, le modalità, l’attenzione ai bambini: quante volte magari spacchiamo la famiglia piuttosto che raccoglierla tutta intera. E allora facciamo un incontro feriale dopo cena: può venire il papà o la mamma se va bene. Se, invece, valorizzassimo di più quei tempi e quei modi che permettono alla famiglia di godere dello stare in parrocchia, perché c’è chi si prende cura dei piccoli, perché c’è una relazione fraterna, c’è lo scambio di esperienze, c’è la calma necessaria… Se la pastorale stressa chi la vive non può produrre frutti! Invece, Gesù ci ha invitato a sederci, ci ha chiamati anche al riposo e al ristoro; sarebbe bello che una famiglia di famiglie non aggravasse di compiti ulteriori, ma nutrisse il bisogno di verità e speranza che c’è nel cuore di tanta gente. Anche qui, non ci sono tecniche, ma, più che altro, uno stile che faccia sì che, quando si torna a casa la domenica sera, si senta che si è più ricchi di prima, più contenti e più capaci di affrontare la fatica della settimana».

Lei non è mai stato, prima di oggi, a Cremona o nel suo territorio; conosce la nostra città solo in riferimento a don Primo Mazzolari e ai suoi scritti. Ci può dire come ha conosciuto questo nostro grande prete e che cosa l’ha affascinato nei suoi scritti?

«L’ho conosciuto grazie ai preti formatori che avevamo in Seminario. Un piccolo particolare: don Vincenzo Ossolazzi, il vicerettore che avevamo e che poi abbiamo seguito da parroco qualche anno dopo, ha scritto “Lettera alla parrocchia” riprendendo la “Lettera alla parrocchia” di don Primo Mazzolari e riaggiornandola. Come dire che quel sogno di parrocchia, quel sogno e quell’esperienza di una Chiesa per tutti, di una Chiesa – si dice oggi – povera per i poveri, ma in realtà capace di stare con tutte le esperienze umane che quotidianamente bussano o protestano nei confronti di Dio, quello ha un’attualità sempre forte. Quindi sapere che questa terra è segnata da questa memoria mi dà tanta speranza. Non ha senso curare un processo di beatificazione per gloriarci di una memoria del passato se non ne assumiamo lo stile e non ne riscopriamo l’attualità».

Con piacere abbiamo constatato che lei usa i moderni mezzi digitali. Che idea si è già fatto, attraverso di essi, della nostra diocesi?

“Non li uso moltissimo. Certamente anche i miei amici di Camerino-San Severino sono rimasti colpiti da come la Chiesa cremonese sia all’avanguardia. Quindi vi faccio i complimenti per il nuovo portale, per il sito, per l’aggiornamento continuo. E anche questo mi rassicura, nel senso che c’è una comunità in cui i talenti di ciascuno vengono valorizzati per andare incontro alle tante necessità del nostro tempo. Proprio perché è finita l’epoca del prete factotum: figuriamoci del vescovo factotum».

Ha già immaginato, a grandi linee, come sarà concretamente il suo ministero di vescovo?

«Non più di tanto: le grandi linee sono quelle scritte nel Vangelo, nelle raccomandazioni che ho ricevuto dal Nunzio apostolico; spero di incontrare anche il Papa e penso che anche una sola parola di Papa Francesco sarà importante. Sapere che la mia nomina viene direttamente da lui, che ha seguito la mia vicenda e la vicenda della chiesa di Cremona e quindi ha ritenuto lui di farci sposare, mi mette ancora di più in ascolto del suo magistero: quindi prendiamo l’Evangelii Gaudium e, come ha detto al Convegno di Firenze, ristudiamola e approfondiamola insieme, perché lì c’è veramente una scossa per la Chiesa di tutto il mondo, e a maggior ragione per la Chiesa italiana».

Ascolta l’intervista a mons. Napolioni