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Intervista a mons. Carmelo Scampa: dopo 40 anni in Brasile la missione continua

Alla vigilia dell’Epifania ha festeggiato i suoi 16 anni di episcopato. Lo ha fatto nella “sua” Cattedrale di Cremona mons. Carmelo Scampa, vescovo originario della diocesi di Cremona (nativo di Scandolara Ripa d’Oglio), dal 2003 alla guida della diocesi di Saõ Luis de Montes Belos, in Brasile, dove la sua avventura pastorale era iniziata nel 1977. Il mese di gennaio per lui spesso è tempo di una sosta di riposo in Italia. Abbiamo approfittato di questa occasione per intervistarlo.

Mons. Scampa, le recenti elezioni in Brasile hanno portato a una virata politica. Nei 40 anni di missione all’estero come ha visto cambiare questo Paese? «Nel 1977 il Brasile era sotto il regime militare, dunque con restrizioni notevoli di libertà. Poi, attraverso i movimenti popolari, a metà degli anni ‘80 si è aperto per la democratizzazione. Una democrazia ancora faticosa, ma abbastanza in crescita. Ora, dopo una quindicina d’anni di governi di sinistra, che hanno favorito un inserimento concreto ed efficace dei poveri nel contesto nazionale, è stato eletto questo nuovo Governo, notoriamente di destra. Ma è presto per giudicare».

In questi anni, a livello globale, si è visto un periodo di crisi: è stato così anche in Brasile. «A fronte dei cambiamenti significativi vissuti negli ultimi 40 anni, ultimamente notiamo una marcia indietro. Sono 50 milioni i poveri che guadagnano metà del salario minimo (circa 100 euro al mese), 15milioni vivono in stato di miseria (con 20/25 euro al mese), senza contare i 14 milioni di disoccupati. Un quadro che fa emergere un Brasile disuguale e ingiusto: chi è ricco è sempre più ricco e i poveri sempre più poveri».

E quale la situazione a livello ecclesiale? «Per certi versi abbiamo fatto il cammino opposto. Se nel ’77, sotto il regine, la Chiesa era notoriamente impegnata con e per i poveri, profetica, capace di rischiare (molti sono i martiri dell’epoca), oggi le cose sono cambiate, ma non sempre in meglio. Certo c’è una maggiore consapevolezza nella persone impegnate, ma c’è l’ombra di una Chiesa che sta perdendo le molle di una profezia e di un impegno molto più inserito nelle realtà concrete».

Il Papa invita a essere una “Chiesa in uscita”. Cosa si sente di dire paragonando la realtà brasiliana a quella italiana? «È un’espressione tipica di papa Francesco, che in America Latina – e dunque anche in Brasile – è molto comune. Per una Chiesa che ha ancora l’odore della prima evangelizzazione è normale farsi carico di chi era nostro e non lo è più e di tante aree che non sono evangelizzate. Diciamo che fa parte del dna della giovane Chiesa latino americana, anche se certo non mancano rigurgiti di chiusura. In Italia vedo che è molto più difficile: la storia e la tradizione pesano e diventa molto difficile uscire dalla cerchia dei nostri gruppi. Ma è un lavoro profetico che dovrà anche qui essere affrontato, essendovi molte più opportunità di qualche anno fa. Ad esempio per l’enorme fetta di persone che vengono da altri Paesi, con culture e religioni differenti. Allora la Chiesa è chiamata non solo a dialogare, ma anche ad annunciare e uscire da se stessa».

Si è dunque chiamati tutti alla missionarietà. «Il rischio è che la missionarietà si sostenga solo su episodi missionari. Anche il fatto di avere una missione diocesana non dice di per sé che la Chiesa diocesana è missionaria: possono essere solo episodi. Da quanti anni, per esempio, c’è l’esperienza di sacerdoti “fidei donum”: ma Chiesa cremonese è diventata più missionaria? Dovrebbe esserci uno scambio: culturale, di fede, di forze; invece spesso si limita a un aiuto economico per cose concrete. Secondo me ci sono tante cose da rivedere, a cominciare dalla valorizzazione di queste esperienze, che dovrebbero favorire nelle comunità una sana inquietudine».

Una priorità anche nella sua diocesi? «Tra il 2007 e il 2010 abbiamo investito molto sulla dimensione missionaria, perché una Chiesa o è missionaria o non è Chiesa. Questo si è concretizzato in tre anni di missioni popolari: non basate su prete o una équipe, ma sulle forze locali del popolo. Un’azione capillare nelle comunità che direi è abbastanza riuscita e ha lasciato un segno. Poi abbiamo ripreso gli orientamenti della Conferenza di Aparecida che lanciava la missione continentale in tutta l’America latina. Una preoccupazione che ci ha impegnato, anche se non c’è stata quella risposta suscitata dalla missione popolare».

Continuando a guardare alla diocesi di Saõ Luis de Montes Belos, tra le attenzioni pastorali del suo ministero c’è stata quella al clero, di oggi e di domani. «C’è stato un salto di qualità consistente. Nel 2003 i preti erano 19, oggi sono 39. Allora erano 7 i diocesani, oggi sono 29, tutti giovani sacerdoti locali. Sarebbe stato aleatorio, per me – straniero -, non investire nella formazione del clero locale e continuare a chiedere aiuti fuori senza investire in ciò che si ha in casa. Proprio per questo abbiamo acquistato una struttura per il Seminario che oggi conta 21 studenti di Teologia al Maggiore e 4 ragazzi al Minore. Questo ci garantisce una o due ordinazioni per anno, che è il sufficiente per il nostro piccolo, una grazia. A questo tema si affianca quello della pastorale vocazionale, con Incontri frequenti – per tutte le vocazioni – nelle parrocchie e nelle regioni».

Altri fronte di impegno? «Dal 2004 abbiamo insistito sulla formazione biblica come fondamento di tutte le pastorali. Abbiamo istituito la Scuola biblica diocesana, che si realizza nelle cinque regioni pastorali quattro volte all’anno nel fine settimana. È bello sottolineare che si svolge con materiale prodotto in diocesi, anche grazie al contributo di due giovani sacerdoti che sono stati mandati a Roma a formarsi».

Nei 16 anni di episcopato lei è stato anche impegnato in più visite pastorali…  «Un tema importante è quello della diocesanità con la riscoperta della Chiesa particolare, con una sua storia e fisionomia, cercando di suscitare spirito di appartenenza alla Chiesa locale. Proprio le visite pastorali – che sono durate più di sette anni – hanno favorito una prossimità più concreta tra vescovo e comunità e tra comunità e diocesi. Ho cercato di visitare il più possibile le parrocchie: ho fatto due visite pastorali complete e una a metà; la prima della durata di una settimana, visitando ogni realtà della parrocchia (insieme di comunità, famiglie, malati). La seconda è stata di più breve durata».

Sappiamo che avete aperto una casa di recupero per tossicodipendenti, anche grazie al contributo dei cremonesi. «Questa casa è nata dall’esigenza emersa nelle viste pastorali per il numero sempre crescente di persone travolte dal fenomeno droga. Con aiuto anche della Diocesi di Cremona abbiamo comprato un terreno e qui è stata costruita una casa per 24 ospiti. Nel 2016 sono iniziate le attività: noi ci occupiamo degli aspetti più pratici e dell’accompagnamento spirituale, mentre il percorso di recupero dal punto di vista psicologico e terapeutico, in cui noi non abbiamo competenze, l’abbiamo affidato all’associazione “Fazenda de Esperança”, di San Paolo, legata al Movimento dei Focolari. Forse mi aspettavo qualcosa di più da questo progetto: pochissimi, infatti, riescono a fare il cammino completo. Ma è comunque lo sforzo di una Chiesa per cercare di affrontare un grave problema sociale».

Eccellenza, il 5 gennaio ha festeggiato i 16 anni di episcopato e a fine mese compirà 75 anni. Che cosa la attende per il futuro? «Più di un mese fa ho presentato, come da prassi, la mia rinuncia, che ora è nelle mani del Papa. I ritmi del Brasile sono un po’ differenti da quelli italiani: da noi gli avvicendamenti sono più lenti e possono passare da alcuni mesi a più di un anno dalla presentazione della domanda. Mi sento molto tranquillo e pronto a lasciare: quando mi diranno che è l’ultima stazione. Programmi specifici per il futuro non ne ho. All’inizio pensavo di andare in Amazzonia, ma con l’età che avanza non voglio essere un peso anziché una risorsa. Ritornare a Cremona è una possibilità, ma non la più realistica. Quello che più si conferma in me è restare in diocesi di Saõ Luis de Montes Belos, ma non proprio a Saõ Luis, e affiancare un prete, collaborando con lui nella pastorale. Il vescovo emerito è parte di un presbiterio locale, senza incarichi di direzione. D’altro canto sono contento di essere arrivato sino in fondo ed essere stato “marito” di una sola sposa, visto che in questi anni le tentazioni di passare il testimone ad altri non sono mancate».