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Il ritratto di Charles de Focauld nelle parole di don Aldighieri: on-line l’audio

Un uomo che seppe tradurre il suo essere cristiano nella silenziosa e costante testimonianza quotidiana. Questo il ritratto di Charles de Focauld che martedì 2 dicembre don Mario Aldighieri ha tracciato nell’incontro presso la biblioteca del Centro pastorale diocesano di Cremona. L’intento era quello di ripercorrere le tappe principali della vita del religioso francese perché, traendo spunto dalla sua esperienza, si possa ricavare un’attuale lezione, per quanto riguarda i rapporti con le altre culture, in particolare quella musulmana.

Don Aldighieri ha ricordato che Papa Francesco ha evidenziato l’importanza di questa figura all’inizio del recente Sinodo sulla famiglia, esaltando il suo rifiuto delle ricchezze a partire dalla povertà predicata dalla Famiglia di Nazareth: egli seppe “farsi tutto a tutti”, avendo compreso che amando gli altri, in particolare i più poveri, si impara ad amare Dio.

Don Mario ha dunque raccontato alcuni momenti significativi della vita di Charles de Focauld (1858-1916) che hanno portato quest’uomo al dono totale della sua esistenza. Proveniente da una famiglia nobile e cristiana, Charles si allontana presto dalla fede, dopo la morte prematura dei genitori e del nonno che si era preso cura di lui. Ben presto perde anche la sua patria, la Lorena, strappata ai francesi dalla Germania. Decide di intraprendere la carriera militare, vivendo intanto una vita di gozzoviglie. Grazie all’esercito viene a contatto con la realtà algerina e, dopo varie vicissitudini, con la popolazione dei Tuareg. Il primo approccio con la cultura musulmana è quello tipico della mentalità europea del tempo, del dominatore francese, portatore di civiltà in una realtà barbara inferiore alla propria cultura.

Charles nella sua esperienza militare riesce a non perdere quell’umanità che ad un certo punto gli fa lasciare l’esercito, per tornare da libero cittadino in Marocco, attratto dal deserto, attraverso il quale desiderava raggiungere Gerusalemme. Poiché allora avrebbero potuto entrare in Marocco solo gli ebrei, Charles si finge tale, prendendo la falsa identità di rabbino e cominciando così la sua esplorazione. Quando su di lui comincia a maturare qualche sospetto, sono proprio i musulmani a trarlo in salvo e a ospitarlo. Si avvicina così alla cultura islamica, imparandola e meditandola. Ciò gli provocai un profondo turbamento: Charles intuisce che in quel credo ci sia qualcosa di vero, ma non trova in quella religione il fondamento di tutto.

Quando torna in Francia la sua esistenza cambia totalmente: cancella il suo titolo nobiliare di visconte, vive per strada nella povertà e, grazie ad un sacerdote, don Huvelin, ritrova la sua fede in Dio. Decide, così, di intraprendere il viaggio in Terra Santa che aveva sempre voluto svolgere e nella visita rimane particolarmente colpito dall’ambiente di Nazareth, città nella quale tornerà a servire le Clarisse dopo l’esperienza come monaco trappista in Siria.

Charles comprende che non è chiamato a ricoprire la figura di religioso in quelle terre dalla cultura tanto differente dalla sua: lui vuole stare con quella gente da uomo qualunque, vivendo il suo essere cristiano prima ancora di predicarlo. Il dovere assoluto è quello verso i poveri, i più bisognosi, dei quali nessun altro si occupa. Il suo desiderio più grande diventa quello di portare Cristo (e dunque l’Eucarestia) dove ancora non è arrivato, non tanto con la predicazione, quanto vivendo in prima persona il Vangelo. La sua dedizione e la sua mitezza arrivarono ad assumere caratteri talmente radicali da essere appellato dalla popolazione locale “il folle cristiano”.

L’apice della sua esperienza si verifica nel periodo vissuto nel deserto del Sahara al confine del Marocco. Lì, dopo essere ordinato sacerdote, vive in una umile casa, aperta tutte le ore a chiunque avesse bisogno di aiuto o semplicemente di conforto, tanto che cominciano a chiamarla “La fraternità”. Rimane in particolare a stretto contatto con i Tuareg, dei quali cerca di conoscere la lingua (il tamasheq) e le tradizioni, arrivando anche a intraprendere la difficile impresa di traduzione della Bibbia per diffonderla in quella popolazione e la creazione di un dizionario francese-tamasheq.

Charles, seguendo i tuareg anche nei loro spostamenti – è questa infatti una popolazione nomade – e stando accanto a loro, arriva stravolgere l’immagine comune del missionario: prima di qualsiasi conversione era fondamentale per lui la comprensione e il rispetto delle culture incontrate. La presenza cristiana di Charles non consisteva nella predicazione – tanto che non poteva nemmeno celebrare la messa –, ma nella pratica costante e silenziosa dell’amore e dell’affetto.

In quel periodo della sua vita – ha sottolineato don Aldighieri – impara anche a ricevere. Ammalatosi due volte, la seconda rischia di morire: sono proprio i tuareg che si impegnano a salvare questo fratello che è sempre con loro, intraprendendo un lungo viaggio per procurargli il necessario per vivere.

Il sacerdote cremonese si è così soffermato sulle parole di Charles in riposta alla domanda postagli da un medico che lo visitava sul motivo della sua ostinata presenza in quella terra. Gli scrisse Charles: «Mio caro dottore, io sono qui non per convertire in un sol colpo i tuareg, ma per cercare di capirli e di migliorarli. E poi, io desidero che i tuareg abbiano il loro posto in paradiso. Sono certo che il buon Dio accoglierà nel Cielo coloro che sono stati buoni e onesti, senza bisogno che siano cattolici romani. Lei è protestante, lui è incredulo, i tuareg sono musulmani: io sono persuaso che Dio ci riceverà tutti, se lo meritiamo e cerco di migliore i tuareg perché meritano il Paradiso».

In questo particolare momento storico, che stimola la riflessione sul rapporto tra culture diverse, la figura di Charles de Focauld (proclamato beato da papa Benedetto XVI il 13 novembre 2005) invita ad intraprendere un cammino, a percorrere insieme al diverso un pezzo di strada che, anche se tragica e complessa, testimonia il significato altissimo della fraternità. L’invito di Charles è ad essere presenza, anche facendo un passo indietro rispetto alla propria identità, non negandola, ma accantonandola per un momento, per far un po’ più di spazio alla vita degli altri, in particolare se sono poveri e se di loro nessuno si prende cura.

http://archivio.diocesidicremona.it/main/file/DOWNLOAD/InterventoDonAldighieri.mp3