Giubileo dei Vescovi. Mons. Delpini: “La speranza? È la grazia di conoscere Gesù e la sua promessa”
Un ammonimento, un messaggio… E la partecipazione ai pellegrinaggi, assieme a tante persone che si recano a Roma con la speranza nel cuore. Così mons. Mario Delpini, arcivescovo metropolita di Milano e metropolita di Lombardia, sintetizza il senso del Giubileo per un vescovo. È lo sguardo del “pastore” (ma il termine – confida – non gli piace) della Chiesa ambrosiana, che ha appena girato la boa dei 50 anni di sacerdozio, alla vigilia del Giubileo dei sacerdoti e dei vescovi, attesi da Papa Leone XIV a Roma dal 25 al 27 giugno.
Eccellenza, qual è il significato del Giubileo per un vescovo?
«Il Giubileo per un vescovo significa un ammonimento: “Ricordati che sei peccatore! Convertiti e credi al Vangelo!”. Il Giubileo per un vescovo significa un messaggio da portare a tutti: “Per quanto abbiate peccato c’è la grazia del perdono. Per quanto pesante sia il senso di colpa per quello che avete fatto e per i danni che avete causato, c’è la grazia del sollievo, l’indulgenza plenaria”. Il Giubileo per un vescovo significa partecipare ai pellegrinaggi di molte persone, gruppi, categorie in viaggio verso Roma o verso le chiese giubilari e aiutare coloro che sono in viaggio a essere pellegrini di speranza, piuttosto che turisti o vagabondi».
Come vive ogni giorno la sua missione di pastore?
«In verità io faccio fatica ad usare la terminologia del “pastore”. In primo luogo, perché il Pastore è Gesù. Inoltre, il pastore dovrebbe conoscere i pascoli e le vie su cui condurre il gregge, mentre io non sono esperto, cerco piuttosto di essere tra le pecore che ascoltano la voce del Signore. In terzo luogo, perché mi suona male considerare gli altri come pecore. Preferisco allora definirmi come il servitore dell’unità della comunità: si mette un po’ più in alto degli altri perché gli altri lo possano vedere. Alcuni guardano al vescovo e lo riconoscono punto di riferimento per la vita della Chiesa locale. Altri guardano al vescovo come al responsabile di tutti i problemi della Chiesa; quindi, a lui rivolgono tutte le critiche, tutto il malumore, tutte le proteste. Se la prendono con il vescovo: così sono un po’ protetti i preti e i laici delle comunità. Possono sempre dire: “L’ha detto, l’ha deciso, l’ha impedito il vescovo: prendetevela con lui!”. Perciò in un certo senso il vescovo “non fa niente”: semplicemente è là, come un punto di riferimento o come un bersaglio».
In una realtà come quella milanese, dai tratti di profonda secolarizzazione, ben si intuisce il significato della “Chiesa in uscita”, tema che ci ha consegnato Papa Francesco. Come, dunque, essere oggi comunità missionaria?
«Definirei la missione secondo due dinamiche. La comunità è missionaria perché è attraente: il modo di vivere dei fedeli che fanno parte della comunità, la loro pratica della carità, la loro gioia, la bellezza delle loro celebrazioni è una luce che può illuminare la casa. Esercita un’attrattiva che può proporre a molti: “Entrate! Anche voi siete attesi! Anche voi siete benvenuti”. La comunità è missionaria perché i cristiani, accesi dal fuoco dello Spirito, sono presenti in tutti gli ambienti della vita quotidiana e annunciano il Vangelo. I cristiani non annunciano il Vangelo in ufficio, a scuola, in ospedale, nel condominio facendo delle prediche. Piuttosto hanno qualche cosa da dire in nome di Gesù su ogni esperienza umana: la vita, la morte, l’amore, la gioia, il dolore, la vocazione, insomma su tutto. Non sono complessati e reticenti a proposito di Gesù e della sua risurrezione: è la loro vita!».
Come vivere e insegnare a vivere la speranza cristiana oggi?
«Troppo facilmente, credo, si intende la speranza come un impegno, una virtù da praticare. Quindi i cristiani, oltre che essere, come tutti, presi da mille cose, devono fare anche qualche cosa in più: sperare, andare a messa, ricordarsi di dire le preghiere. Non sembra molto attraente! Si deve invece riconoscere che noi siamo raggiunti da una promessa: “Vi ho chiamato amici. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”. La speranza è la risposta a questa promessa, è il riconoscere che la promessa è affidabile e attraente, è l’invincibile fondamento della fiducia nell’affrontare la vita, perché questa fiducia si basa sul Signore e non sulla buona volontà o il temperamento di una persona. Oggi siamo chiamati a vivere la speranza, perché abbiamo ricevuto la grazia di conoscere Gesù e la sua promessa. La speranza è un modo di vedere il presente e il futuro: occasione per camminare verso il compimento. La speranza è un modo di vedere gli altri: si deve riconoscere che siamo tutti chiamati ad essere fratelli e sorelle. La speranza è un modo per esprimere la stima di sé e la responsabilità: ho ricevuto cinque talenti, dovrò renderne conto».