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Giovedì a S. Camillo Cremona ricorda il beato Enrico Rebuschini

Giovedì 10 maggio Cremona rievocherà un suo figlio il cui ricordo rimane vivo e amato in tutta la diocesi: il camilliano padre Enrico Rebuschini. Come consuetudine, nel giorno anniversario della morte (1938), il vescovo Antonio Napoleoni presiederà una solenne Eucaristia nella cappella della casa di cura S. Camillo, in via Mantova 113, a Cremona. Saranno presenti, oltre ai Camilliani, degenti, medici, collaboratori insieme a quanti sono particolarmente legati alla figura di questo beato. Ne tracciamo un profilo con il contributo di padre Roberto Corghi.

Comasco di nascita, il beato Rebuschini è tuttavia considerato cremonese a pieno merito per l’attività svolta in città nei quarant’anni che vi ha trascorso e per il suo essersi inserito nella tradizione della carità iniziata già da Imerio e Omobono, i santi patroni di Cremona. Un affetto ed una stima che sono andate via via crescendo fino a portarlo alla beatificazione, proclamata nel 1997 dalla Chiesa. Fossi un artista, lo dipingerei con le maniche rimboccate, un atteggiamento più che mai adatto a lui come a molti altri santi della carità: i Fondatori del ‘500, per esempio, i veri Riformatori della chiesa e della società di quel tempo, fra i quali san Camillo de Lellis, al quale il Beato si ispirava.  

Nato a Gravedona (1860) e cresciuto da una mamma di fede e un papà apertamente anticlericale, Enrico è prima ragioniere, poi dirigente d’azienda, infine sacerdote camilliano. Destinato a Cremona, riceve l’incarico di cappellano delle Figlie di San Camillo, poi di superiore della comunità ed economo dell’Opera S. Camillo, una tra le prime strutture sanitarie della città, ora clinica San Camillo. Si ricordano ancora la sua dedizione ai malati, la cura dei feriti della prima grande guerra, l’apertura della Casa di Cura e la sua gestione: attrezzature, banche, fornitori, dove emergono le doti del ragioniere. Il tutto sempre con una gran fiducia nella Provvidenza,

A chi crede che un santo vada bene solo sugli altari, Padre Enrico avrebbe molto da insegnare sull’assistenza ai malati, sempre attuale e a tutto campo, anche agli amministratori dato il ruolo svolto nella sua casa di cura. Ad avvicinare i malati, innanzitutto, provvedendo con prontezza alle loro necessità e aiutandoli a confidare nel Signore anche nel tempo della sofferenza. O a percorrere le corsie annotando ciò che vien fatto bene ma può essere fatto meglio e ciò che invece non va e non va fatto. A vigilare se si assiste il malato con umanità, garbo, competenza e collaborazione, tutti comportamenti la cui mancanza gli renderebbe dubbia l’idoneità ad una professione bella quanto esigente. A provvedere agli investimenti necessari senza grettezza e senza sprechi perché anche i bilanci devono quadrare. A preoccuparsi che i servizi siano bene integrati con la sanità del territorio e rispondenti alle reali esigenze della gente, non in competizione.

Una cosa non avrebbe mai immaginato: lo sviluppo della medicina e le gravi sfide di oggi. Lo lascerebbero sbalordito ma non impaurito. Ci raccomanderebbe il diritto alla vita, tutta e sempre, perché diritto della vita stessa al suo affacciarsi, o il dovere di proteggerla e curarla in qualunque condizione si trovi, o la vocazione incancellabile della medicina fin dal suo nascere: servire la vita e non la morte. Padre Enrico ci ammonirebbe: sono in gioco i valori umani più alti o la nostra stessa disumanizzazione. Non l’ha detto con parole ma col suo passare, la sera, tra i letti dei suoi malati, confortando, rinfrescando la bocca ai più gravi, sedendosi accanto ai morenti, in silenzio, col rosario in mano. Anche questo è un suo messaggio prezioso. Il più importante e urgente.

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