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Gmg, da Salvador de Bahia a Lisbona con tappa a Cremona

Nelle parrocchie comincia a diffondersi il clima di attesa ed entusiasmo per la 37a Giornata mondiale della gioventù, che si terrà a livello internazionale dal 1° al 6 agosto 2023 a Lisbona. Dalla città di Cremona, però, insieme ai ragazzi della diocesi, partiranno anche alcuni giovani brasiliani. Si tratta di una decina di ragazzi della parrocchia di Gesù Cristo Risorto, a Salvador de Bahia, che saranno ospitati da famiglie cremonesi, proprio nella settimana precedente la Gmg, per poi raggiungere Lisbona.

Questa è la prima volta in cui i ragazzi brasiliani, invece di ricevere la visita di missionari nel proprio Paese, affronteranno loro stessi un viaggio tanto lungo fuori dalla favela. Sembra riecheggiare, nella loro scelta coraggiosa, il tema contenuto nel messaggio del Santo Padre per questa Gmg: «Maria si alzò e andò in fretta».

Don Ferretti, sacerdote fidei donum a Salvador de Bahia, spiega che «l’idea di aderire alla proposta della Gmg è nata tempo fa, parlando con i ragazzi, che hanno espresso un forte desiderio di partecipare». Desiderio che sta plasmando, già ora a mesi di distanza, la semplice quotidianità di questi ragazzi: «Loro vivono nella favela, un viaggio simile è una spesa enorme. Hanno iniziato a preparare dolci, cose da bere, piccoli lavoretti da vendere per racimolare qualche soldo». La preparazione, però, non è solo economica. Il cammino iniziato dai giovani di Salvador de Bahia in vista della Gmg è anzitutto un cammino di crescita umana e spirituale, per sé ma anche per i propri famigliari: «L’intenzione è quella che anche le famiglie dei ragazzi possano accompagnare nella preghiera questa esperienza».

Per quanto riguarda l’organizzazione della settimana cremonese che i ragazzi brasiliani vivranno quest’estate sono al lavoro don Francesco Fontana, responsabile della Federazione oratori cremonesi, e don Umberto Zanaboni, responsabile della pastorale missionaria, con l’aiuto di ragazzi e giovani lavoratori che in questi anni sono entrati in dialogo con la realtà della parrocchia brasiliana. Fra questi anche Gloria Manfredini, missionaria laica da poco tornata dal Brasile e collaboratrice del centro missionario diocesano, che offrirà il suo sostegno nell’accoglienza. «I ragazzi di Salvador – spiega proprio Gloria, che con questi giovani ha condiviso attività e vita quotidiana per un anno – non solo saranno coinvolti nella vita dei giovani italiani in partenza per la Lisbona, ma saranno anche accompagnati a conoscere la nostra città, con la sua arte e la sua cultura. Troveranno poi l’appoggio delle parrocchie in diocesi, entrando il più possibile nel vivo del nostro territorio». Una volta arrivati a Lisbona, invece «il desiderio sarebbe quello di alloggiare a Fatima», come spiega don Ferretti, che continua: «Molti di loro non sono mai usciti dalla favela o comunque da Salvador de Bahia. Sa-ebbe un’esperienza umana, ma anche ecclesiale. Loro conoscono solo la Chiesa che hanno qui, non c’è un’idea di un’universalità della fede. Questa importante occasione sarà la tappa di un cammino che già hanno iniziato».

L’incontro con questi giovani sarà proposto come arricchimento per tutta la diocesi di Cremona che potrà sperimentare una volta in più, nel concreto, la fraternità con la parrocchia sorella di Salvador de Bahia, con cui è gemellata, mentre l’attesa per la Giornata mondiale della gioventù accende il cuore del grande evento di Chiesa facendosi fin da ora attesa di qualcuno da accogliere.




«Un silenzio denso di volti e nomi». Il vescovo al Cimitero di Cremona per la preghiera in suffragio dei fedeli defunti

Nel pomeriggio di martedì 2 novembre si è tenuta presso il Civico Cimitero di Cremona la preghiera in suffragio per tutti i fedeli defunti, presieduta dal vescovo Napolioni.

Durante il momento di preghiera, come di consueto molto partecipata in particolare dalle comunità cittadine, alla presenza del vescovo emerito Dante Lafranconi, dei parroci della città e delle autorità civili, monsignor Napolioni ha proposto una riflessione sul brano evangelico della casa di Betania, lo stesso scelto dalla Cei e dalla stessa diocesi come “Parola-guida” per il cammino sinodale nell’anno pastorale in corso.

In particolare, si è soffermato sulle parole che Gesù rivolge a Marta: “Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta”. È proprio la figura di Maria ad indicarci «che è l’ascolto orante del Signore nella nostra vita a renderci capaci del bene e che, quindi, possiamo donare agli altri solo il bene ricevuto», ha sottolineato il Vescovo. Che ha quindi aggiunto: «Quando Gesù riceve la notizia che il suo amico è gravemente malato, non va subito a trovarlo, perché è necessario che non ci siano alternative alla fede: viene un momento in cui resta solo la fede, l’abbandono». Monsignor Napolioni ha invitato a soffermarsi sul fatto che oggi siamo una società sempre più anziana; tuttavia, questo significa che «abbiamo tempo per ritrovare l’essenziale! Questo tempo serve per “addomesticarci” vicendevolmente. Gesù si è lasciato “addomesticare” dalla famiglia di Betania e anche da noi, perché noi potessimo a nostra volta imparare ad abitare la casa di Dio». L’auspicio emerso dalle parole del Vescovo di Cremona è quello «che possa accadere a noi quello che è accaduto a Marta» che è arrivata ad affermare “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo”. Per questo, secondo il Vescovo: «Serve che fissiamo lo sguardo su Gesù, curiosi di sapere come i nostri cari e i defunti stanno ora nel Mistero di Dio; ma permettiamoci di desiderarLo anche noi, sempre nell’obbedienza a questa vita terrena che ci è posta davanti».

Dopo la benedizione sui defunti, il vescovo ha chiesto di fare un momento di silenzio: «Un silenzio denso di volti e nomi. Pensiamo non solo ai nostri cari, ma anche a chi in questo anno ci ha lasciato nel mondo. Le notizie di guerra sembrano prevalere sulla vita. Diventino ora preghiera e supplica, che non sia solo la pace Eterna a venirci incontro, ma anche la pace terrena».




Giornata missionaria, il 22 ottobre in Seminario la veglia diocesana

“Vite che parlano” è il titolo che accompagnerà la veglia missionaria diocesana che si terrà sabato 22 ottobre alle ore 21 presso il salone Bonomelli del Seminario vescovile di Cremona.

A una breve introduzione seguirà la lettura di alcune testimonianze: sarà presentata l’esperienza missionaria di Madre Teresa, Papa Francesco, don Lorenzo Milani e della patrona delle missioni, Santa Teresa di Lisieux. Interverrà anche Gloria Manfredini, tornata in Italia dopo un periodo di missione in Brasile, come fide donum a Salvador de Bahia presso la parrocchia di Gesù Cristo Risorto dove attualmente sono presenti altri due cremonesi: don Davide Ferretti e Marco Allegri.

Il tema della veglia diocesana – che vedrà la presenza anche del vescovo Antonio Napolioni – seguirà la linea tracciata da Papa Francesco nel messaggio per la Giornata missionaria mondiale 2022, dal titolo “Di me sarete testimoni”. A tal proposito, don Umberto Zanboni, incaricato diocesano per la Pastorale missionaria e il Primo annuncio, invita a soffermarsi su un aspetto, a suo parere decisivo, del messaggio: «Mi colpiscono le parole di san Paolo VI, citate dal Santo Padre: “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono testimoni”. Infatti, l’annuncio – precisa don Zanaboni – più che con le parole viene fatto con la vita, vorrei dire con gli occhi».

Durante la veglia, accompagnata con il canto da alcune corali della diocesi, si pregherà non solo per i missionari, ma anche per la vocazione missionaria di tutta la Chiesa.

 

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Le voci dei giovani cremonesi volontari al Meeting: «Per noi un’esperienza di incontro»

Si è concluso da pochi giorni alla Fiera di Rimini il 43° Meeting per l’Amicizia tra i Popoli. Il titolo dell’edizione 2022 “Una Passione per l’uomo” riprende un intervento di don Luigi Giussani del 1985: «Il cristianesimo non è nato per fondare una religione, è nato come passione per l’uomo». Ed è proprio questa l’esperienza testimoniata da alcuni ragazzi cremonesi che hanno partecipato all’evento come volontari.

Ciò che ha colpito Gaia, cremonese universitaria, è stato lo stupore negli occhi delle persone, durante una serata di canti. Seduta alle “Piscine Est” della Fiera in una pausa dal suo lavoro come hostess, racconta: «Ieri, alla serata di canti che abbiamo organizzato, c’era tantissima vita – e aggiunge sorridendo – però, non per merito mio». Un “surplus” di vita, non del tutto spiegabile come esclusivo prodotto della buona volontà di chi si è messo all’opera: contagio di vita e unità che i tanti giovani che hanno offerto il loro impegno hanno riconosciuto come un dono di cui essere grati. Basta pensare ai dialoghi nati tra ospiti o visitatori di nazionalità, fede, convinzioni o schieramenti politici diversi. In questi cinque giorni, ci si è allenati a riconoscere nell’altro una risorsa buona per la propria vita. Anche nella semplicità di un incontro fortuito o nel più umile dei “servizi”, al Meeting «ogni secondo è occasione per un incontro»: lo afferma Paolo, giovane cremonese che indossa una maglia viola per contraddistinguere il suo compito di parcheggiatore.

Mostre, convegni, spettacoli: qualsiasi proposta del Meeting intercetta il “desiderio di felicità, di bene, di verità e di giustizia che abita nel cuore di ognuno”. È la mission dell’evento, come viene esplicitato nel sito ufficiale della Fondazione.

Ciò non significa che il lavoro sia privo di difficoltà: «Se l’anno scorso il Meeting è stato per me una rinascita, quest’anno mi sono stati messi davanti i miei limiti» afferma Chiara, anche lei di Cremona, vestita con la t-shirt gialla del settore ristorazione. Aggiunge sorridendo: «Eppure, c’è qualcuno che mi vuole così».  Si può arrivare dopo un anno faticoso e si può arrivare carichi del proprio limite, sicuri che ci sarà qualcuno pronto ad accoglierti, «anche persone con cui non hai mai parlato» dice Chiara.

Dunque, un luogo di incontro, accoglienza e soprattutto gratuità, come testimoniano i ragazzi di Cremona lì presenti. Nei cinque giorni del Meeting, tra mostre, convegni e spettacoli, tutti, compresi i nostri ragazzi, hanno potuto riconoscere quella “passione per l’uomo” con forza richiamata dal fondatore del movimento di Comunione e Liberazione don Luigi Giussani. Come riporta il sito della Fondazione, il Meeting di Rimini, andando a scomodare tanti ambiti della cultura, vuole essere “il luogo fisico in cui sperimentare come l’esperienza della fede cristiana vissuta sia capace di incontrare e valorizzare ogni tentativo umano che collabora positivamente al destino di ogni uomo”.




Scuola e università insieme per formare gli insegnanti del futuro

La scuola, un percorso di esperienza. Questo uno dei temi principali affrontati nello speciale di approfondimento di Riflessi Magazine, in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore, andato in onda il 29 giugno in televisione e sul web.

L’occasione del dialogo è l’avvio, nel prossimo anno accademico, del corso abilitante in Scienze della formazione primaria che sarà inserito nell’offerta formativa della sede di Piacenza-Cremona dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Per questo, alle domande del conduttore Andrea Bergonzi, ha risposto il professor Pierpaolo Triani, docente e coordinatore del corso. Altra ospite in studio è stata Anna Pozzi, giovane insegnante presso la scuola primaria “Sacra Famiglia” di Cremona, laureata proprio alla Cattolica.

Lo speciale si è arricchito grazie a contributi concernenti il nuovo corso universitario e all’intervento di Roberta Balzarini, dirigente delle scuole paritarie della cooperativa Cittanova e preside del liceo Vida di Cremona.

Con un’attenzione particolare alla scuola primaria, la trasmissione ha guardato con interesse al rapporto tra la ricca tradizione educativa italiana e l’esigenza di novità dettata dai tempi in cui viviamo. In effetti, come afferma Anna Pozzi, «è vero che questo è un periodo di transizione: sto trovando una scuola che cerca di adattarsi».

I cambiamenti sono tanti, a partire dai tempi di concentrazione del bambino. Ma “cambiamento” non significa ricominciare da zero, piuttosto «riconoscere che questo è un tempo prezioso», come ha afferma il professor Triani riferendosi agli anni di pandemia. «Abbiamo imparato – ha sottolineato il decente universitario – quanto la scuola richieda progettualità e passione educativa. Abbiamo capito che insegnare è ben più che parlare davanti a qualcuno: è creare contesti, costruire relazioni, fare scoprire». E ancora: «Abbiamo imparato la centralità dei bambini e degli insegnanti. Quello che ci viene chiesto ora – ha proseguito Triani – è di fare tesoro, cercando di costruire il nuovo. E il nuovo vuol dire rimettere al centro i fondamentali, cioè che il bambino è capace di imparare e che gli adulti sono capaci di accompagnare».

Ed è proprio per «rimettere al centro i fondamentali» che la scuola di oggi ha bisogno di figure educative preparate. Per questo, già nel contesto universitario risulta fondamentale, «un clima accogliente e una dimensione positiva di costruzione di sapere nuovo che può essere mettere a disposizione della scuola di domani», ha precisato il preside di facoltà Domenico Simeone.

Imprescindibile, infatti, una solida preparazione degli insegnanti che dovranno gettare le fondamenta per il percorso di crescita delle nuove generazioni. Già l’esperienza universitaria è volta ad acquisire, come ha ricordato la maestra Pozzi, «una forma mentis» che è poi la “carta” che, nel concreto e nel quotidiano, un’insegnante può giocare fra i banchi di scuola. Dunque, più che un una somma di esami per assimilare «tutto lo scibile umano», l’università è un luogo dove si apprende un metodo, un certo tipo di sguardo al bambino, come ha sottolineato la giovane insegnante.

Per individuare questo metodo e delinearlo con precisione, bisogna appunto tener conto delle sfide del cambiamento, della ripartenza post-Covid e delle esigenze proprie del bambino che questa realtà ha fatto emergere. Ed è questo il nocciolo della prima provocazione di Roberta Balzarini, che ha evidenziato come la scuola richieda una forte lettura della realtà, un’attenzione al tempo e alla personalizzazione dell’apprendimento.

A proposito del tempo si è espresso il professor Triani, sostenendo che «i bambini passano molto tempo a scuola. È molto importante riconoscere che crescono anche fuori da essa. Ma la scuola è quel tempo-spazio prezioso per aiutare il bambino a fare unità degli apprendimenti. La vera sfida è aiutare i bambini a collegare le esperienze che vivono nella esperienza scolastica».

Se è vero che i bambini non imparano solo a scuola, è vero che, come sostiene Anna Pozzi, «la rete, in particolare con la famiglia, è fondamentale, perché la vita è unita, quindi c’è proprio bisogno che anche gli intenti educativi siano uniti. E ha aggiunto: «C’è anche la rete con i compagni. Se qualcuno ti guarda con un bene, questo ti fa apprezzare tutto». La giovane maestra ha poi proseguito ponendo l’accento sulla personalizzazione dell’apprendimento, basata sull’unicità, non solo delle esperienze della vita, ma anche del bambino stesso: «Essendo ogni bambino un unicum, ognuno ha i suoi tempi di apprendimento e lavoro. Nel momento in cui si pensa che i tempi per tutti siano uguali è quasi una violenza. Per me è proprio una sfida accettare e valorizzare che davvero ognuno sia unico e aiutarli a raggiungere il proprio massimo».

Perciò, l’apprendimento va ben al di là dei programmi che, secondo Triani, «sono degli strumenti, non sono mai il fine. Il fine della scuola è la crescita del bambino».

Non un programma e non un calendario, dunque, ma la scuola è per il bambino, come per l’insegnante, parte stessa della vita. Questa attenzione all’unicità (del bambino) e unità (dell’esperienza umana) si concretizza in metodo: «Fare scuola – spiega Triani – non è mettere in sequenza delle attività, ma è costruire un percorso di esperienza. Quindi, ogni anno è una storia che viene costruita con il bambino e con il gruppo».

«Alle elementari – ha aggiunto Pozzi – tante parole non servono. C’è bisogno di far fare esperienza a tanti livelli: un’esperienza umana che consenta ai bambini di sentirsi voluti bene così come sono è forse la cosa di cui hanno bisogno loro».

Se, come afferma l’insegnante, l’esperienza è «ciò che ci si ricorda e che ci plasma», questo poi implica, secondo le parole del docente universitario, «un pluralismo metodologico capace di parlare alle diverse intelligenze del bambino, di valorizzare diversi mediatori dell’azione didattica, cioè parlare attraverso l’azione, il gioco, le immagini, simboli. Il metodo che non separa la scuola dalla vita aiuta il bambino a scoprire, riflettere, auto valutarsi e a imparare dall’errore».

Certo, ci si domanda come questo sguardo così “integrale” sia attuabile in una classe. Secondo Pozzi perché la scuola sia un percorso e non solo la trasmissione o ricezione di nozioni, sono gli insegnanti stessi a doversi mettere in gioco: «Il primo punto di partenza è che anche io mi metta nelle condizioni di fare un cammino. Ci sono stati tanti fatti che hanno consentito a me imparare di bambini. Fondamentale è mettersi sempre in discussione, sia dal punto didattico che umano, perché tutto va insieme: l’esperienza umana e didattica necessitano l’una dell’altra. Che la scuola non sia “altro” dalla vita è possibile se in primis è così per me».

Una crescita, perciò, che riguarda il bambino ma anche l’insegnante e una crescita «a tutto tondo», come suggerisce Roberta Balzarini. Per ottenere questa completezza di metodo, è necessario, da un lato, «educare alla trascendenza» e, dall’altro lato «lavorare in team».

A partire da questo spunto della dirigente scolastica, Anna Pozzi si è soffermata sul tema della collaborazione fra insegnanti: «Collaborare non è facilissimo, per una questione oggettiva, cioè che fra insegnanti abbiamo una formazione molto diversa. Però, se si ha in mente lo scopo, si può avere collaborazione. Occorre tener presente l’orizzonte a cui siamo chiamati nel nostro lavoro».

È, invece, il professor Triani ad approfondire la questione della ricerca del senso: «Il bambino – ha affermato – ha una dimensione della spiritualità, cioè del rapporto con la vita e con il mistero, che abita la vita, quindi anche con il senso religioso. Ogni azione educativa che educa realmente apre la mente e il cuore. L’educazione alla trascendenza non avviene solo attraverso tematiche religiose, ma si educa alla trascendenza nella misura in cui noi educhiamo bambini a stupirsi della realtà, di sé e dell’altro».

Chiarezza di scopo ed educazione allo stupore sono elementi ineludibili per la scuola del futuro, ma sono già rintracciabili nel presente: esistono, sul nostro territorio, esperienze che operano in questo senso. E l’Università Cattolica si propone di entrare in relazione con queste realtà scolastiche. «L’obiettivo – spiega Triani – è rafforzare la qualità del sistema educativo territoriale di Piacenza e Cremona sia dal punto di vista della scuola che del sociale. Secondo: vogliamo intensificare la collaborazione con la realtà e con le scuole, quindi muoverci in un’ottica di potenziamento della formazione in servizio e della ricerca, che stanno in stretto collegamento con la formazione iniziale».

Anche tramite l’intervento del rettore dell’Università Cattolica, il professor Franco Anelli, lo speciale di approfondimento si è soffermato sulle peculiarità della sede Piacenza-Cremona dell’ateneo fondato da padre Gemelli, luogo che nel complesso della sua proposta formativa guarda al futuro con creatività e responsabilità, senza mai prescindere dalle radici della tradizione.




Chiesa di Casa, l’abbraccio alle famiglie nell’ultima puntata della stagione

ƒ. Ci credono con forza i coniugi Maria Grazia e Roberto Dainesi, incaricati diocesani per la Pastorale familiare. Una famiglia che ha bisogno di altre famiglie. In altre parole del respiro di una comunità, che a sua volta ha la responsabilità di «intravedere nelle famiglie i segni della presenza del Signore». Ne è convinto don Enrico Trevisi, coordinatore dell’area pastorale «Famiglia di famiglie», che insieme ai coniugi Dainesi è stato ospite questa settimana di Chiesa di casa, il talk di approfondimento pastorale della Diocesi di Cremona, che nell’ultima puntata della stagione non poteva che cogliere spunto dall’incontro mondiale delle famiglie.

Un evento con il quale la Chiesa intende in qualche modo aiutare ad accogliere il «progetto di Dio», e quindi la propria «vocazione», come ha sottolineato il sacerdote. Riguardo le modalità di questo aiuto, poi, la comunità cristiana deve rimanere disponibile a quanto la realtà oggi suggerisce: esigenze, generazioni e tempi del tutto nuovi.

Proprio a questo riguardo, secondo Maria Grazia «si fa ancora un po’ fatica a pensare a proposte che tengano conto davvero dei vissuti familiari». Ma c’è un’altra necessità: una comunità che vuole includere le famiglie, secondo Maria Grazia, deve lasciarsi stupire: «l’invito che ci facciamo è di guardare a ogni famiglia con ammirazione e stima». Certo, lo stupore non basta: l’attenzione della Chiesa e, nello specifico, della Diocesi di Cremona, vuole farsi abbraccio tangibile. Un rapporto, dunque, prima ancora che una formula o uno schema da rispettare.

Don Trevisi, traendo spunto da Amoris laetitia, sottolinea inoltre che «la pastorale familiare non può essere fatta soltanto di conferenze e incontri». Il compito di una comunità cristiana consiste piuttosto nel «relazionarsi alle famiglie per quello che sono». Cioè, come spiega Dainesi, nella partecipazione alla «normalità di relazioni». Basta così anche una semplice cena, un incontro del tutto informale, per entrare in rapporto con le famiglie, coglierne le esigenze e condividerne la vita.

È per questo che stilando un bilancio dell’anno pastorale trascorso, secondo l’incaricato diocesano anche questo «è frutto delle relazioni». Come dire, guardando alle prospettive dell’ufficio famiglia, che il punto su cui mettersi al lavoro non sono tanto le iniziative, le attività o gli incontri. Ecco allora che «se ognuno è attento alla singolarità delle famiglie, tutte le occasioni si possono cogliere». Ne è convinto don Trevisi che pensa a un «annuncio, la proposta di un cammino di fede» che non richiede esagerati sforzi organizzativi, ma una compagnia nel quotidiano, nell’ascolto del Vangelo. Sarà poi la realtà a mostrare se questi tentativi di aiuto vadano realmente nella direzione di un sostegno effettivo alla vocazione delle persone.

Se è vero che una famiglia ha bisogno di una comunità, è anche vero che la comunità trae beneficio dalla presenza di famiglie al suo interno. Queste, infatti, sono la testimonianza che «anche nella fragilità – sostiene don Enrico Trevisi – rimane una buona notizia, il Vangelo» e che esiste una Chiesa dove «ci si sente a casa».

Perché la famiglia – conclude Maria Grazia Antonioli Dainesi – «è qualcosa di molto più complesso e ricco di un calendario di iniziative» e, dunque, a noi cristiani è affidata la sfida di coglierne il bisogno essenziale, guardando al Vangelo e seguendo la Chiesa.




Sport in oratorio, momenti per fare comunità. I valori del Csi “ospiti” a Chiesa di Casa

Questa settimana Chiesa di Casa, il talk di approfondimento pastorale della diocesi di Cremona, affronta il tema dello sport. Ospiti in studio sono stati Claudio Ardigò, presidente del Csi di Cremona, e Francesco Monterosso, dirigente della Polisportiva Sant’Ilario di Cremona. In collegamento, invece, don Fabrizio Ghisoni, parroco di Paderno Ponchielli, nonché giocatore della selezione Sacerdoti Italia Calcio.

La promozione della Cremonese in Serie A e gli atleti di casa nostra alle Olimpiadi di Tokyo: in questo ultimo anno non sono pochi i successi che sul territorio «hanno dato grande impulso all’attività sportiva», come dice Claudio Ardigò. Davvero questi successi hanno sollecitato iniziative e riflessioni. Ne è un esempio l’atletica leggera: «Il Csi nazionale ha organizzato un corso per allenatori di atletica leggera e solo in Lombardia eravamo più di quaranta, questo per dire quanta richiesta di poter fare attività».

Una carica nuova che arriva anche alle porte degli oratori, dove da sempre lo sport – grazie in particolare proprio alla presenza capillare del Csi – è momento e occasione privilegiata di incontro educativo. Ne parla Francesco Monterosso. È lui a sottolineare le caratteristiche fondamentali, in ambiente oratoriano, dell’attività sportiva: «Deve essere orientata da tre principi: sicuramente c’è un aspetto fisico-atletico, perché c’è in ballo la salute dei nostri ragazzi; c’è poi una dimensione tecnica, perché lo sport in oratorio non è mai da considerare “di secondo livello”, cioè noi cerchiamo di fare le cose bene, con allenatori preparati; infine, c’è la dimensione relazionale: lo sport, soprattutto di squadra, mette le persone in relazione». E l’equilibrio di questi tre aspetti viene sostenuto da una quarta dimensione, quella pastorale che, secondo Monterosso «non va dimenticata – aggiunge –: gli allenatori stanno sul campo con i ragazzi 5 o 6 ore alla settimana, una quantità di tempo importante». Perciò, «dovremmo riflettere sulla qualità di queste figure e quanto possa essere trasmesso ai ragazzi, in queste ore».

Dunque, il ruolo dell’allenatore, così come quello dei dirigenti e degli accompagnatori che rendono possibile l’organizzazione dell’attività, se sostenuto da una comunità parrocchiale, può diventare un ruolo di educatore nella fede. Su questo aspetto insiste don Fabrizio Ghisoni, il quale sottolinea come «la dimensione pastorale, di cui Francesco parla, diventa reale se c’è la comunità. E la comunità è fatta dalle famiglie». Don Ghisoni descrive la propria esperienza di sacerdote e anche di sportivo in parrocchia come arricchente, perché porta a riscoprire un valore fondamentale per l’uomo, che è l’aspetto comunitario; infatti, anzitutto, il primo punto in comune, anche nella rappresentativa dei Sacerdoti italiani di cui don Fabrizio è protagonista «è la nostra umanità». Aggiunge: «Io testimonio, con la maglia dei Sacerdoti Italia Calcio, quel desiderio evangelico: “Se non ritornerete come bambini, non entrerete nel Regno dei cieli”. Questo diventa un’occasione e uno stile di stare in mezzo alla gente».

Se, da un lato, l’adulto che si occupa dell’attività sportiva in oratorio è chiamato a una crescita e conversione, i valori cristiani possono essere comunicati, tramite lo sport, anche ai più giovani: «Lo sport, dal punto di vista culturale, ha un’importanza fondamentale: è un veicolo per trasmettere valori fin dai piccoli», dice Monterosso. I giovani «imparano a conoscersi, rispettarsi, far diventare le differenze una ricchezza: dal basso, possiamo costruire una comunità più solidale».

In questo momento storico, per esempio, emerge chiaramente il bisogno di educarsi al valore dell’inclusione e lo sport può essere utile in questo senso, come spiega Ardigò: «Stiamo cercando di trovare una possibilità di far gareggiare i bambini ucraini sul nostro territorio». Inoltre, per quanto riguarda il Csi, il presidente del comitato cremonese afferma: «Lo sport che noi proponiamo non è un’attività agonistica esasperata». L’entusiasmo nello sport non scaturisce, infatti, solo dalla vittoria. Ed è proprio questo l’augurio con cui Monterosso conclude: «anche dalla fantasia, dal vedere i compagni crescere, addirittura dal fermarsi insieme dopo gli allenamenti a pulire lo spogliatoio. L’esperienza sportiva è fatta di tante soddisfazioni. Non solo sul campo».




“Oltre la didattica”: puntata di “Chiesa di Casa” su scuola ed educazione

Nella settimana che ha visto la fine dell’anno scolastico, Chiesa di Casa, il talk di approfondimento pastorale della Diocesi di Cremona, si sofferma proprio sulla tematica della scuola. Ospiti in studio sono stati don Giovanni Tonani, incaricato diocesano per la pastorale scolastica e l’insegnamento della religione cattolica, il professore Alessio Gatta, presidente della cooperativa InChiostro di Soncino, e il professor Stefano Seghezzi, insegnante alla scuola Sacra Famiglia di Cremona.

Il dialogo, guidato da Riccardo Mancabelli, si avvia con uno sguardo all’anno passato: secondo don Tonani «si inizia un minimo di rivitalizzazione della scuola, nonostante tutte le fatiche che quest’anno abbiamo avuto». Dunque, un anno di ripresa, in cui «volenti o nolenti questo covid è stato acceleratore di alcuni processi – dice Seghezzi – per cui siamo riusciti a fare una scuola che, per esempio, integrasse molto l’aspetto tecnologico in aiuto all’attività didattica, una scuola che riuscisse a tenere più dentro il lavoro a casa, intervenendo con idee a cui prima non avremmo pensato». Questa pandemia, secondo l’insegnante della Sacra Famiglia «ci ha costretto a tornare all’essenziale, andare all’osso e fare un salto in avanti». Un salto in avanti che riguarda non solo i più grandi, ma anche i piccolissimi; è così a Soncino dove, come spiega Alessio Gatta, «chi ha cominciato quest’anno doveva ancora fare i conti con i meccanismi delle “bolle”. Per i piccoli c’era qualche limitazione in meno. Però quello che abbiamo capito noi è che anche i piccolini, in qualche modo, hanno già un concetto di fratellanza che li lega». Fratellanza e legame che si instaurano anche fra i ragazzi di medie e superiori: «Più volte, quando invitavamo i ragazzi all’uso corretto della mascherina e al distanziamento, la sintesi dei loro sguardi era “va be, ma è un mio amico” cioè “impossibile che un mio amico diventi improvvisamente un problema”», come ha spiegato Gatta, assecondato con un energico cenno affermativo anche da Seghezzi e Tonani. «Senza contare – aggiunge il presidente di InChiostro – che nella formazione professionale è elevatissimo il livello della richiesta che i ragazzi fanno a noi, come dire: “Aspetto che tu mi chieda un compito alto. Mettimi concretamente di fronte a quello che devo fare”. Li abbiamo trovati ancora più onesti di prima, più veri di prima».

«Questa “crisi” – continua il presidente della cooperativa soncinese – come ogni crisi, ci ha dapprima messi al palo, ci ha interrogato, ci ha dato qualche strumento, poi ha liberato molto la creatività. Questo chiama noi a una scuola nuova». Esigenza di novità che ha interpellato persino l’ambito della scuola professionale: «Fare un corso di formazione tecnico professionale di cucina online diventava molto complicato. Però, fin dai primi momenti di emergenza è stato bellissimo scoprire le famiglie che si mettevano vicino ai figli e alle figlie a imbastire qualche tentativo in cucina». E, se la creatività è emersa quasi naturalmente dalla circostanza che la richiedeva, gli insegnanti hanno dovuto prepararsi, essere aggiornati: «Noi abbiamo investito molto nella formazione degli insegnanti – dice don Tonani – anche a livello pastorale. Si tratta di un accompagnamento non tanto tematico, quanto piuttosto spirituale e pedagogico-culturale, che cerca spingere insegnanti a recuperare alcune motivazioni di fondo. Lo stesso vale per gli insegnanti di religione: cerchiamo di mostrargli che un metodo, un lavoro collegiale sono ciò che va recuperato. Bisogna imparare a lavorare insieme e con i ragazzi».

Un lavoro collegiale è attuabile, secondo quanto racconta Seghezzi, anche e soprattutto all’interno di una scuola paritaria di ispirazione cattolica come la Sacra Famiglia: «Più che l’etichetta, si tratta di una scuola che nasce dall’entusiasmo della fede di insegnanti e genitori. Da un lato, è una scuola che, anche per le dimensioni, facilita il lavoro insieme ai colleghi, nel senso che siamo in due o in tre in classe, creiamo insieme le attività; e questo star bene insieme cambia le cose. Dall’altro lato, lavorare qui, anche per una esperienza di fede vissuta, significa avere uno sguardo che non è di lamento, ma positivo, cioè uno sguardo sul ragazzo che parte dalla certezza di un destino buono, destino che non hai in mano tu e però c’è».

Gli stessi presupposti riguardano anche una realtà apparentemente diversa, come quella di Soncino: «da noi si fa formazione professionale dal 2007. Si fa per scelta dell’Istituto religioso delle suore della Sacra Famiglia, di cui noi eravamo dipendenti. Siamo figli della storia di queste suore, cioè di una vita nel quotidiano e nella dignità del lavoro. Partendo da questo concetto del lavoro come strumento imprescindibile per la formazione della persona umana, abbiamo scelto una formazione di assetto lavorativo. Ciò significa che i nostri ragazzi, quando fanno laboratorio di cucina, gestiscono attività commerciali di ristorazione aperte al pubblico. Quindi, i nostri studenti, si confrontano con clienti veri e scambiano storie vere. Abbiamo pensato, allo stesso modo, che questo sia un grande strumento di inclusione, per esempio c’è un percorso personalizzato per i ragazzi disabili».

In conclusione, ciò che è emerso da questo incontro a Chiesa di Casa, è che, come ha spiegato Seghezzi «Il ragazzo ha bisogno di essere guardato a 360 gradi, oltre la didattica. La certezza di un destino buono ti permette di accogliere questo bisogno non come un fastidio, ma come una proposta anche per te».




“Un’estate per gli altri”: a Chiesa di Casa si parla di giovani e missione

Nell’approfondimento pastorale di questa settimana Chiesa di Casa torna a parlare di missioni. Tre gli ospiti in studio, intervistati da Riccardo Mancabelli: don Maurizio Ghilardi, incaricato diocesano per la pastorale missionaria; Tommaso Grasselli, volontario del progetto Bahia; e infine Nicola Graziani, vicepresidente dell’associazione Drum Bun, associazione che da oltre vent’anni spende le proprie estati all’estero, per momenti di servizio.

L’occasione per affrontare questo argomento è la consegna del mandato missionario ai sei giovani in partenza per un’esperienza missionaria a Salvador de Bahia durante la prossima estate. Mandato che sarà consegnato dal Vescovo nella chiesa di Sant’Ambrogio a Cremona questa domenica, 5 giugno, alle 19 a Marta Ferrari, Tommaso Grasselli, Sara Di Lauro, Anna Capitano, Alessandra Misani e Davide Chiari.

Il tema del viaggio è proprio il fulcro dell’associazione Drum Bun: «Drum Bun significa “buon viaggio” in lingua rumena – spiega Nicola Graziani – viaggio inteso come riscoperta di noi stessi, del gruppo, di realtà, persone e luoghi differenti». Drum Bun ha operato ed opera, oltre che tramite alcune realtà in Romania ed Albania, anche attraverso nuovi progetti in Italia: «Quest’estate siamo in una fase di “ristrutturazione” sia per la pandemia, sia per uno scambio generazionale che stiamo vivendo all’interno. Stiamo cercando di acquisire nuove idee, energie e risorse. Il primo progetto a cui abbiamo pensato è denominato “Zaino in spalla”: andremo a visitare realtà associative del centro e nord Italia, per un confronto con altre realtà che possono essere al nostro fianco nella ripartenza». I progetti sono tra i più vari: dai progetti con i minori stranieri non accompagnati insieme alla cooperativa Nazareth, a quelli di agricoltura solidale, fino a una partnership con l’Università Cattolica: «Siamo una associazione viva! E siamo in attesa di progetti più ambiziosi» afferma Graziani. La vitalità di questa associazione risiede, secondo lui, in «Un gruppo saldo che intendeva portare e allo stesso tempo far proprie delle esperienze, non con l’ottica del “supereroe” ma sempre con l’ottica dello scambio e servizio reciproci». Tra i principi fondativi, infatti, a partire dalla fede cristiana, c’è l’obiettivo di una «condivisione». Condivisione, cioè non solo disponibilità a svolgere determinate attività, ma anche e soprattutto curiosità nel mettere in comune la vita e la quotidianità.

È questo il filo che unisce le esperienze dei tre ospiti in studio. In particolare, la curiosità emerge dalle parole di Tommaso Grasselli, giovane in partenza per l’estate missionaria in Brasile: «Voglio cambiare approccio verso la vita e verso il mio futuro». Si tratta, quindi, dell’approfondimento di un cammino personale che si inserisce nella vita della comunità di Salvador de Bahia. Un percorso composto di tasselli concreti: «Mi sono preparato facendo degli incontri con i volontari che sono in Brasile e ci hanno introdotto a questa esperienza e ora sto seguendo un corso di portoghese» dice Tommaso. Ad aspettare lui e i suoi compagni di viaggio, a Salvador de Bahia, è presente don Davide Ferretti, sacerdote cremonese fidei domum, affiancato da due laici cremonesi, Gloria Manfredini e Marco Allegri. «I contatti con loro sono frequenti» spiega don Ghilardi, mettendo in luce, anche sulla base di quanto riferito dai missionari, come la pandemia abbia acuito povertà e violenza. Tuttavia, questa non è una obiezione ad una presenza attiva nella favela: «Sia Gloria che Marco sono ormai inseriti nelle realtà educative, ma il loro principale servizio avviene in parrocchia. Il servizio prosegue dal punto di vista della vita comune: condividere il mangiare, la Messa, ma anche il percorso di fede di quella comunità».

Il gruppo che partirà con Tommaso, come spiega don Maurizio, «è costituito da giovani della nostra diocesi provenienti anche da parrocchie molto diverse. Marco, Davide e Gloria li aspettano, mentre il legame consolidato tra Salvador de Bahia e Cremona continua a consolidarsi».

 

 




“Chiesa di casa”: per una comunicazione “in uscita” ​​​​​​​oltre il metro dei “like”

«Noi abbiamo l’idea che il giornalista sia colui che ci racconta al telegiornale cosa è successo nella giornata» spiega Gamba. Si tratta, invece, di «ricostruire attraverso l’ascolto degli altri quella che i giornalisti solitamente chiamano la “sostanziale verità dei fatti”». Questo uno degli spunti proposti da Maria Chiara Gamba, corrispondente da Cremona per Avvenire, ospite della puntata di questa settimana di «Chiesa di casa». Con lei, in dialogo con l’incaricato diocesano per le comunicazioni sociali Riccardo Mancabelli, il collega Filippo Gilardi, giornalista coordinatore redazionale di Tele radio Cremona Cittanova, editrice che gestisce e cura i media diocesani che richiama la «capacità di incontrare gli altri e di non essere autoreferenziali – e aggiunge – Credo che questo sia un rischio da scongiurare. Viviamo un tempo, l’epoca della comunicazione, in cui è essenziale mettersi nei panni di chi riceve il messaggio, capire il linguaggio di chi ascolta per potersi proporre in modo efficace e significativo».

Dunque, occorre un adeguamento, anche perché, come spiega la corrispondente di Avvenire: «Siamo immersi in un fiume di comunicazione». I ragazzi, oggi, intendono la comunicazione «come un mettere in comune senza filtri le loro esperienze all’istante». In questo senso, continua il collega: «Un rischio della comunicazione “adulta” è quello di voler costringere dentro sistemi o linguaggi che ci sembra siano tipici del mondo giovanile i nostri soliti contenuti. È molto importante, per questa velocità di adattamento, che i giovani abbiano spazio creativo per imprimere il loro stile alla comunicazione». Ed è forse proprio perché il nostro tempo esige notizie sempre meno superficiali e accumulate, che bisogna ricordare, come dice Maria Chiara, che «fare il giornalista vuol dire cercare più fonti, più punti di vista per completare il fatto».

A tal proposito, risultano evidenti dei punti di lavoro, due in particolare, secondo Filippo Gilardi: «Il primo è quello di uscire dalla logica dello “scoop”: non conta più tanto arrivare prima, ma arrivare bene sulla notizia; l’altro aspetto è quello di uscire dalla logica del consenso, che è la logica tipica della nostra società, quella del “like”, che ci imprigiona in questa necessità di avere approvazione». Piuttosto, riflette Maria Chiara Gamba riprendendo alcuni passaggi del Messaggio del papa per la Giornata, si tratta di «partire dall’idea di considerare l’altro come portatore di bellezza e mistero». Per accorgersi di ciò, «bisogna predisporsi in quell’atteggiamento di ricerca di novità, bellezza, mistero che tutte le persone che incontriamo, ci possono offrire».

La posizione del giornalista, ma anche dell’educatore, quindi, è quella di chi si mette in discussione, per capire che l’altro è «un mondo da scoprire». Quindi, la comunicazione, in particolar modo quella cristiana, deve ambire a un percorso di conoscenza, conoscenza di quel Mistero che sta alla radice dei fatti, delle persone incontrate.

Chiesa di Casa si è infine conclusa con le parole di Filippo Gilardi, che rimarcano la grande sfida di «misurarsi con la società, con la cultura, con le persone». La proposta, però, interpella non solo i giornalisti, ma anzitutto la Chiesa e i cristiani di oggi.