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Una Quaresima di carità per «allargare idealmente le sbarre»

 

Costruire dei ponti. Questo è l’obiettivo, secondo don Roberto Musa, cappellano della casa circondariale di Cremona, della proposta per la Quaresima di Carità della diocesi cremonese. Protagonisti dell’iniziativa, coordinata dalla Caritas diocesana, sono infatti le persone detenute presso l’istituto cittadino. «L’idea che abbiamo condiviso è proprio quella di provare ad allargare idealmente le sbarre che ci sono alle finestre per permettere a chi si trova in carcere di vedere il mondo esterno non solamente come qualcosa di ostile».

A raccontarlo è proprio don Musa, insieme alla direttrice della struttura, Rossella Padula, durante la nuova puntata di Chiesa di Casa, il talk di approfondimento della Diocesi di Cremona.

«Il timore più grande che hanno – secondo il sacerdote – è quello di non avere una seconda possibilità. Hanno il desiderio di uscire dal carcere, ma fuori non sempre hanno punti di riferimento. Spesso la libertà spaventa, e si manifesta la paura di cadere nuovamente in qualche situazione critica. Molti chiedono di essere inseriti in contesti diversi e nuovi, per sfuggire a questo rischio». Nonostante questo, la speranza della libertà resta cruciale per tutte le persone detenute. Viverne la privazione è certamente una fatica, ma spesso rappresenta l’inizio di un percorso. Per la direttrice Padula, l’avvio di questo cammino è decisivo. «La presa di coscienza del fatto è un elemento imprescindibile, sia per chi si trova in carcere in attesa di giudizio, sia per chi sta già scontando una condanna». In questo secondo caso, la sentenza ha già sancito una colpa, «ma il vero passo in avanti viene compiuto solo quando questa colpa è riconosciuta e accettata. Da qui si può dare il via ad una serie di ragionamenti, confronti e riflessioni per pensare ad una vera riabilitazione e reinserimento della persona all’interno della società». La sottolineatura della direttrice sulle dinamiche relazionali non è casuale. «Molte persone vivono e incontrano la realtà del carcere: poliziotti penitenziari, psicologi, criminologi, educatori, medici, sacerdoti e tanti operatori esterni. Ciascuno di loro porta avanti un percorso di accompagnamento che è fondamentale, e che può dare speranza a tutti coloro che sperimentano una mancanza profonda».

L’incontro, allora, diventa occasione di crescita e maturazione. Diventa luogo in cui è possibile “Dare speranza alla giustizia”, come recita il titolo del progetto per la Quaresima della diocesi di Cremona. In questo senso la Chiesa cremonese è molto attiva, per don Musa, «perché numerose associazioni, oltre all’impegno di Caritas, si interfacciano con la casa circondariale e con le persone detenute. È un’attenzione importante, perché molto spesso proprio nell’incontro personale nasce quella condivisione che può aiutare chi si trova in carcere a prendere coscienza della propria colpa e a superarla, senza trattarla in modo superficiale, ma anche evitando il rischio di assolutizzarla».

Le considerazioni di don Musa e di Padula aiutano ad umanizzare una realtà che, spesso, è considerata come un istituto a se stante e lontano dalla realtà. È la direttrice stessa a ricordare che «siamo noi a poter fare la differenza. Tutto dipende da ciò che noi offriamo alle persone detenute, anche e soprattutto in vista del loro rientro in società. Molti di loro sono soli, stranieri, quindi necessitano di un’attenzione particolare. Cura è forse il termine che meglio racchiude ciò che siamo invitati a vivere e sperimentare in ciò che facciamo».

Parlare di giustizia, detenzione e pena non è mai semplice. Lo sguardo che Rossella Padula e don Roberto Musa invitano a tenere, però, è quello della speranza. La speranza di un domani migliore, di una nuova occasione. Di una rinascita.

A meno di un mese dalla celebrazione della Pasqua, l’incontro con una realtà che, metaforicamente, racconta storie di morti e resurrezioni può allora essere decisivo per la vita di ciascuno. Per superare la chiusura, delle celle e dei cuori, serve conoscere, incontrare, toccare con mano. In poche parole, serve costruire ponti.




Chiesa di casa, un digiuno di carità e di condivisione

 

Preghiera, carità e digiuno. Sono i tre elementi che, nella tradizione della Chiesa, caratterizzano il tempo della Quaresima. Proprio sul terzo, il digiuno, si è focalizzata la nuova puntata di Chiesa di casa, il talk di approfondimento proposto dalla diocesi di Cremona. Il tema, però, non è stato analizzato solo dal punto di vista cattolico, ma con uno sguardo più ampio sulla questione relativa al rapporto con il cibo. Ospiti della trasmissione sono stati, infatti, don Michele Rocchetti, vicario parrocchiale dell’unità pastorale di Calcio, Pumenengo e Santa Maria in Campagna, il dottor Mohamed Elnadi, medico e presidente del centro culturale Al-Manar di Soresina e la psicologa Anna Bandera, psicoterapeuta specializzata nell’età dello sviluppo.

«Oggi celebriamo la prima domenica di Quaresima – ha esordito don Rocchetti – quindi mi pare significativo sottolineare che la proposta del digiuno prevede la rinuncia a qualcosa, solitamente uno o più alimenti, per vivere bene questo tempo. L’attenzione da avere è quella di non confonderlo con una dieta: esso è parte di una prassi penitenziale il cui fine è la conversione».

Un discorso simile può essere fatto, secondo il dottor Elnadi, per la pratica del digiuno vissuto dai musulmani nel mese di Ramadan, «durante il quale non prendiamo cibo e acqua per tutta la durata della giornata. Per noi si tratta di un momento in cui ci viene offerta la possibilità di recuperare il rapporto con la nostra quotidianità, ristabilendo così il legame con gli aspetti più profondi e spirituali della vita di ciascuno di noi. Inoltre, è un invito chiaro all’umiltà: ci prendiamo del tempo per vivere come i poveri, che tante volte non hanno nulla da mangiare».

In entrambe le esperienze religiose, dunque, non si tratta mai di un digiuno fine a se stesso, ma di un’astinenza che ha un respiro decisamente più ampio.

La questione del rapporto con il cibo, al di fuori della vita di fede, può invece porsi come un reale problema. «Anche in questo caso – ha spiegato la dottoressa Bandera – l’aspetto centrale non è il piatto vuoto. Dal punto di vista clinico, il digiuno implica sempre una rinuncia al sé e molto spesso cela una sofferenza profonda. Accade quando il rapporto con il dolore non riesce ad essere espresso con altri canali. La rinuncia al cibo diventa quindi, più che una scelta consapevole, il sintomo di un disagio che siamo invitati a cogliere».

Talvolta, invece, quella di non mangiare diventa la risposta ad un altro tipo di bisogno, secondo la psicologa. «Ci sono situazioni in cui la ricerca della sofferenza con il digiuno può richiamare il desiderio di un’affermazione di sé, di onnipotenza. Rifiutando il cibo la persona si fa del male, ma, di conseguenza, grida a se stessa, e al mondo, la propria presenza. In questo senso, condividere diventa importantissimo, anzi, vitale».

E proprio sulla dinamica della condivisione e comunione si è concentrata la riflessione conclusiva della puntata di “Chiesa di casa”. «Non digiuniamo mai da soli – ha sottolineato il dottor Elnadi – ma tutti insieme. Questo ha un grande valore per noi, tanto che il digiuno del Ramadan è uno dei cinque pilastri della nostra fede».

Per quanto riguarda la Chiesa, secondo don Rocchetti «non è un caso che proponga dei tempi di digiuno rivolti all’intera comunità. Ogni cristiano può decidere di viverlo in modo libero e autonomo, ma tutti insieme siamo chiamati ad accogliere questa proposta in momenti particolari, come la Quaresima. Il legame con la preghiera e la carità, poi, è molto stretto. Questo ci fa capire come l’esperienza del digiuno, della sofferenza, sia di piena condivisione. D’altra parte, la vita cristiana è relazione con il Signore, colui che offrì la propria sofferenza per il bene di tutti noi».




Chiesa di casa, l’intelligenza artificiale tra frontiere e sfide

 

AI Act. Così i Paesi dell’Unione europea hanno definito il primo testo di legge al mondo per la regolamentazione dell’intelligenza artificiale. Il 2 febbraio scorso, i ventisette Paesi hanno approvato all’unanimità l’accordo, che sarà votato in forma definitiva nel mese di aprile. Un passaggio importante, che fornisce un’indicazione ben precisa: se esiste una necessità di regolamentazione e di governo, significa che l’intelligenza artificiale sta assumendo un ruolo sempre più rilevante nella società e nella vita delle persone.

A questa tematica è stata dedicata la nuova puntata di Chiesa di casa, il talk di approfondimento della diocesi di Cremona oggi alle 12.15 in tv su Cremona1 e già disponibile sul web. A introdurre il tema, don Maurizio Compiani, docente e assistente pastorale della sede cremonese dell’Università Cattolica del Sacro Cuore: «L’intelligenza artificiale è un insieme di sistemi che rispondono in modo autonomo a problemi che noi poniamo».

A ben guardare, non si tratta di una novità assoluta. Il vero cambiamento, e il clamore che esso ha suscitato, è arrivato con l’estrema pervasività che ha contraddistinto la diffusione dell’intelligenza artificiale negli ultimi tempi. «Ormai è entrata nella vita di tutti – ha raccontato il prorettore della sede di Cremona del Politecnico di Milano Gianni Ferretti – e non solo in quella degli addetti ai lavori. Fino ad ora si usava per indagare situazioni complesse. Il salto è stato fatto con l’intelligenza artificiale generativa, perché è capace di generare contenuti senza la necessità di essere programmata in modo specifico prima di farlo».

Oltre a un grande cambiamento sociale, è assai rilevante l’impatto che una tecnologia come questa può avere sul mondo del lavoro. Sono stati condotti numerosi studi sul tema, e molti hanno previsto una progressiva perdita di posti di lavoro a causa dell’introduzione dell’intelligenza artificiale. Tuttavia, Carolina Cortellini, cofondatrice di Microdata e presidente Crit (Crescita relazione innovazione territorio) si è dimostrata decisamente ottimista: «Molto probabilmente i lavori ripetitivi ed estremamente meccanici saranno sostituiti dall’intelligenza artificiale. Ed è meglio così, perché ci saranno opportunità nuove in ambiti differenti e più stimolanti. Esse, però, andranno presidiate in modo specifico, con competenze adeguate. A proposito di questo, un’attenzione particolare dovrà essere posta anche da parte di chi è già nel mondo del lavoro: non deve considerarsi troppo diverso da chi ci si affaccia per la prima volta, imparando a formarsi di nuovo e continuamente. In tutti i settori, infatti, cambierà il modo di lavorare».

Con questi presupposti è facile farsi prendere dal panico o dal timore del cambiamento. Un cambiamento che spesso è molto rapido, e rende difficile riuscire a tenerne il passo. La sfida, in questo senso, è certamente sociale, ma riguarda anche l’ambito scolastico e educativo. «Non bisogna dimenticare che lo strumento cambia il nostro modo di percepire il mondo – ha ricordato don Compiani – e, di conseguenza, cambia anche noi. Ci stiamo abituando ad avere risposte precise e rapide. Ma nelle relazioni non sempre ci sono risposte. A volte servono spazi e tempi per maturare una risposta. Su questo punto dello sviluppo dell’intelligenza artificiale, a livello formativo, dovremmo imparare a rapportarci con l’impatto che esso porta nella vita di ciascuno».

L’aspetto relazionale è indubbiamente imprescindibile per la vita di ciascuno. E non può essere trascurato nemmeno in ambito lavorativo. Le soft skills a cui oggi si fa tanto riferimento, molto spesso, riguardano proprio la capacità di collaborare all’interno di un team. «In questo senso – continua Cortellini – la contaminazione positiva che c’è tra mondo della formazione universitaria e mondo del lavoro è davvero preziosa. Dall’altro lato, però, vedo la necessità di migliorare il rapporto tra aziende e scuole secondarie di secondo grado, ovvero i luoghi dove ragazze e ragazzi iniziano a diventare donne e uomini».

Ed è poi questo anche il parere del professor Ferretti: «Il futuro della formazione si giocherà sulla creazione di ambienti in cui i ragazzi possano vivere insieme. Diversamente, non ci si forma, non si apprende davvero».

Scoprire e utilizzare sempre più l’intelligenza artificiale significa allora non semplicemente arrendersi a un cambiamento inevitabile, ma imparare ad accoglierlo, entrare in relazione con esso per tentare di coglierne gli aspetti più positivi e stimolanti. Per questo motivo in Università Cattolica, a Cremona, partirà dal 20 febbraio un ciclo di incontri che avrà come punto fondamentale la riflessione sulla relazione tra gli uomini e questa incredibile tecnologia.

 

Intelligenza artificiale, chi sei? Dal 20 febbraio a Santa Monica cinque incontri. Evento conclusivo con padre Benanti




Chiesa di casa, la forza della vita ci sorprende

 

 

La vita propone delle sfide. E soprattutto nei giorni in cui se ne celebra il valore e la centralità è bene tenerne conto. Per quanto si cerchi di evitarla, spesso la sofferenza entra a farne parte, la abita, o quantomeno la attraversa. Non mancano, però, le occasioni di gioia, di profonda felicità e pienezza, perché “La forza della vita ci sorprende”. E così è stata infatti intitolata la 46ª edizione della Giornata nazionale della vita, che si celebra domenica 4 febbraio e che ha dato spunto all’ultima puntata di Chiesa di casa.

“Quale guadagno c’è che l’uomo guadagni il mondo intero e perda la sua vita?” è l’interrogativo evangelico (Mc 8, 36) che accompagna il titolo della Giornata e che può mettere seriamente in discussione ciascun credente. È una domanda di sempre, ancor più attuale visti gli episodi che, negli ultimi mesi, hanno visti coinvolti numerosi paesi europei e mediorientali.

Proprio da questa considerazione è partita la riflessione di Antonio Auricchio – presidente dell’Associazione cremonese per la cura del dolore – ospite del talk di approfondimento della diocesi di Cremona. «Quando vedo ciò che accade in paesi molto vicini al nostro, mi chiedo dove sia finita la nostra umanità. Quello che mi auguro, e che vedo spesso nei volti dei volontari della nostra associazione, abituati a stare a contatto con i pazienti dell’Hospice di Cremona, è che non perdiamo quel senso di fratellanza, di comunione che nasce in ogni cuore quando si trova ad incontrare una vita attraversata dal dolore».

Un dolore che molte volte dilania, perché improvviso e inatteso. In altre circostanze, invece, come nel caso dei malati di lungo corso, scava nel profondo, minando certezze e insinuando dubbi. «È proprio qui che la presenza umana fa la differenza – ha spiegato il dottor Paolo Emiliani, medico e presidente del Movimento per la vita di Cremona – perché arriva dove la medicina non può più nulla. Per un malato, il fatto che ci sia qualcuno a prendersi cura, e non semplicemente a curare, è importante».

Secondo don Maurizio Lucini, incaricato diocesano per la Pastorale della salute e assistente spirituale dell’Hospice di Cremona, «non si può pensare di accostarsi ad una persona malata avendo la pretesa di dare delle risposte. Perché il suo dolore fisico, unito alla sofferenza che esso porta con sé, pone quesiti che non hanno soluzione. Ciò che si può fare è cercare di aiutare chi soffre a trovare un senso alla sua malattia. Questo è forse la più grande missione di chi affianca coloro che stanno per giungere al termine della propria vita». E proprio ripercorrendo la propria esperienza in queste situazioni, il sacerdote ha citato le parole di alcune persone che «hanno definito la malattia come qualcosa che ha cambiato la loro vita, aprendo i loro occhi. Questo mi fa dire che davvero la vita ci sorprende, perché anche noi, davanti a determinate situazioni, possiamo intravedere quella benedizione in ciò che, per molti, è una maledizione».

«Parlare di sofferenza è parlare di ferite – ha concluso Emiliani – che certo fanno male, ma possono essere utili per iniziare un cammino di ricerca di senso, di accompagnamento verso la scoperta che la vita, ciascuna vita, ha un valore immenso e il potere di sorprendere».

 

Giornata per la Vita, a Cremona un programma ricco di iniziative

“Una vita da Oscar – Lettere a Dio”, una lettura animata alla veglia per la vita della zona pastorale 1

“Una chat per la vita”, la presentazione del libro del Movimento per la vita di Varese ha aperto gli eventi della 46ª Giornata della vita




Chiesa di casa, la sfida educativa «è cosa di cuore»

 

“L’educazione è cosa di cuore”. Una delle citazioni più celebri di San Giovanni Bosco – di cui si celebrerà la memoria mercoledì 31 gennaio – non può che essere posta al centro della riflessione in questo periodo dell’anno. Quello educativo è un tema sempre attuale, che spesso fa discutere, sia a livello sociale che politico. Affrontare la questione significa parlare di scuola, famiglia, sport, ovvero di quei luoghi che, insieme a molte altre realtà, oggi rivestono un ruolo decisivo nel processo educativo dei più giovani. Spesso ci si perde in tecnicismi, o ci si focalizza su iniziative specifiche e molto orientate. Secondo gli ospiti della nuova puntata di “Chiesa di casa”, il talk settimanale di approfondimento della Diocesi di Cremona, l’educazione ha un respiro molto più ampio.

«San Giovanni Bosco parlava di un sogno dentro a un cortile – ha raccontato don Andrea Bani, vicario parrocchiale dell’unità pastorale Città di Viadana, durante la trasmissione – ed è proprio questo, secondo me, il punto di partenza. Nei cortili dei nostri oratori incontriamo ragazzi e giovani che, innanzitutto, meritano di essere accolti e amati. È la prima cosa che ci chiedono, e precede di gran lunga le iniziative a cui siamo tanto legati. Questo è il primo passo per costruire poi, insieme, un grande sogno».

L’idea della costruzione, del progetto, è sempre molto forte quando si affronta la questione dell’educazione. Essa, infatti, prevede, per sua stessa natura, una certa prospettiva sul domani. Secondo Marta Prarolo, educatrice e pedagogista per il consultorio Ucipem di Cremona e per la Caritas diocesana, «c’è uno stretto legame tra sogno e desiderio. Da adulti dobbiamo avere un’idea, una direzione verso la quale puntare. L’esperienza educativa diventa poi la prassi che segue quella direzione. Da qui nasce la domanda che ci deve interrogare: come educatori, in che posizione ci poniamo nei confronti dei più piccoli? E cosa desideriamo per il loro domani?».

Osservando la questione da una certa prospettiva, il processo educativo può essere visto come qualcosa di estremamente idealizzato, ma di difficile concretizzazione. «Docciamo stare molto attenti a non commettere questo errore – ha sottolineato Mattia Cabrini, educatore e attore cremonese, nello staff della Federazione oratori cremonesi – perché la dimensione del sogno, del desiderio inteso nel suo più alto significato, non deve mai perdere di vista la realtà. Il rischio c’è, lo sappiamo bene. Sia in un senso che nell’altro. Sogno e realtà sono due dimensioni che si parlano, si alimentano l’una con l’altra». Rendere i ragazzi protagonisti della loro educazione significa proprio abitare questa apparente dicotomia. Secondo Cabrini, infatti, «è necessario evitare di proporre semplicemente ai più giovani ciò che noi abbiamo già sognato per loro. Far sì che diventino protagonisti significa invece mettersi al loro fianco, accettare e condividere i loro tempi e la loro umanità».

Questa è forse la vera e più grande sfida dell’educare. «Anche in oratorio – ha concluso don Andrea Bani – talvolta è difficile lasciare spazio alle nuove generazioni. Ma è da qui che passa il loro cammino: dalla duplice consapevolezza di poter sbagliare quando provano a fare da soli, unita alla disponibilità, da parte del mondo adulto, di essere braccia tese ad accoglierli e sostenerli quando avanzano una richiesta di aiuto».

È un cammino complesso, in salita. Almeno tanto quanto la strada che portava alla Barbiana di Don Milani, un altro grande uomo e sacerdote che ha fatto dell’educazione la propria vita e che ha saputo sintetizzare il cuore dell’esperienza educativa con due semplici parole: “I care”.




A Chiesa di Casa, la parola incontra la Parola

 

Si avvicina, per la comunità cristiana, la Domenica della Parola di Dio, che la Chiesa universale celebrerà il prossimo 21 gennaio. Un appuntamento diventato ormai tradizionale per porre l’attenzione su questo aspetto fondamentale della vita di fede.

Proprio a questo tema è stata dedicata la nuova puntata di “Chiesa di casa”, il settimanale di approfondimento della diocesi di Cremona, che si è articolata a partire dalla riflessione sulla differenza tra “Parola” e “parola”. «Quella scritta con la ‘P’ maiuscola – ha raccontato Egidia Ghisolfi, dell’associazione Famiglia Buona Novella – contiene una Rivelazione e chiede di essere accolta per entrare in relazione con Nostro Signore. Si differenzia dalle parole che troviamo in un romanzo, per quanto ben scritto possa essere, perché offre la possibilità di aprire un dialogo profondo con Dio e con le persone con cui se ne condivide la lettura».

L’attenzione alla condivisione, però, è trasversale a molti tipi di espressione. Per Sandro Barosi, giovane cantautore di Calvatone, «solo così può concretizzarsi la vera esperienza artistica. Finché scrivo un testo che leggo solo io, è come se quelle parole non esistessero per il mondo. Nel momento in cui vengono condivise attraverso una canzone, nel mio caso, avviene la magia».

Dello stesso parere anche Massimiliano Pegorini, attore e doppiatore cremonese, secondo cui «il vero valore del condividere una parola sta nel mettere in gioco se stessi. La principale differenza tra un brano letto e uno recitato è proprio questa: entrano in gioco le emozioni. Il lavoro dell’attore, o del doppiatore, è quello di far aderire la voce del personaggio al suo stato emotivo, al suo modo di essere e di sentire. In questa dinamica, noi stessi siamo chiamati in causa, perché il vissuto che abbiamo dentro può diventare determinante».

In modo del tutto analogo, anche quando si parla di “Parola” l’esperienza personale di ciascuno è determinante. «Certamente è prioritario l’ascolto – ha concluso Egidia Ghisolfi – come del resto in ogni dialogo che affrontiamo. Nel rapporto con il Signore, però, è richiesta una particolare attenzione, perché spesso si rivolge a noi nel quotidiano, attraverso le nostre piccole esperienze di vita. Ci tocca nel profondo ed entra in relazione con ciò che custodiamo dentro di noi».

Con queste premesse siamo allora invitati a prepararci per la celebrazione della quarta Domenica della Parola di Dio. Molti sono stati gli spunti proposti dagli ospiti della nuova puntata di “Chiesa di casa”. Ad essi si unisce quello di Papa Francesco, sintetizzato nel motto della giornata, tratto dal vangelo di Giovanni: «Rimanete nella mia Parola».




Chiesa di casa, una “nuova” economia per il bene comune

 

«Complessità e instabilità». Sembrano essere questi, secondo Valentina Cattivelli – docente universitaria di Economia e project management – i punti di partenza quando si tenta di fare un’analisi socioeconomica del panorama globale in cui viviamo. Intervenuta nella nuova puntata di Chiesa di casa, il talk di approfondimento della Diocesi di Cremona, questa settimana interamente dedicata all’economia, Cattivelli ha fornito un quadro della situazione attuale, sottolineando come «ci sia una fortissima interconnessione tra tutti gli attori coinvolti. Questo porta innumerevoli vantaggi, ma comporta rischi significativi: molte crisi che, teoricamente, non ci riguardano da vicino, hanno ricadute consistenti anche sul nostro paese e sulla nostra società».

In questo senso, un buon modo per valorizzare gli aspetti positivi della globalizzazione è puntare sulle relazioni, ovvero sulle persone. «È da qui che dobbiamo ripartire – ha ribadito Michele Fusari, presidente del Movimento cristiano lavoratori di Cremona-Crema-Lodi – perché solo in questo modo è possibile riscoprire il valore vero del lavoro e del fare economia. Se l’obiettivo è solo generare profitto, non usciremo mai da una logica strettamente individualista, che mal si concilia con la realtà così strettamente interconnessa che ci circonda».

Alle sue parole hanno fatto eco quelle di Elena Righini, vicedirettore della filiale di Brescia di Banca etica. «Riportare al centro la persona significa proprio renderla protagonista di tutti quei cambiamenti di cui, quotidianamente, sentiamo parlare. Se perdiamo di vista i volti degli uomini e delle donne che incontriamo, che si affacciano alle nostre realtà, il rischio concreto è quello di strutturare un’economia che, invece di accorciarlo, ampli il divario sociale, creando una distinzione sempre più netta tra il circolo dei ricchi e la fascia più povera della nostra società».

Dalla nuova puntata di Chiesa di casa, grazie al contributo dei tre ospiti, emerge dunque un’idea di economia piuttosto chiara. Più volte è stato evidenziato il valore della persona come punto centrale per un ripensamento sociale. Insieme ad esso, è stata più volte sottolineata la necessità di trasparenza e condivisione da parte di tutti gli attori coinvolti nei processi economici: imprese, banche, investitori e lavoratori.

Complessità e instabilità sono stati individuati come punti di partenza della riflessione. Cura e riconoscimento delle persone possono essere le strade da percorrere per la costruzione di un futuro in cui non si disdegna il profitto, ma ci si interroga sul valore che esso produce per l’intera società.




Chiesa di casa, uno sguardo sul mondo per scoprire se stessi

 

«Allargare il proprio orizzonte, scoprire nuovi mondi, significa scoprire se stessi». Sono queste le parole usate da Roberto Pagani, scrittore e medievista cremonese, autore del blog “Un italiano in Islanda” dove vive ormai da anni, durante la prima puntata del 2024 di Chiesa di casa, il talk di approfondimento diocesano.

Con l’apertura di un nuovo anno – che è sempre inizio, partenza – il tema su cui ci si è focalizzati è quello dello sguardo sul mondo. «Questo porta poi a una elevazione spirituale – ha precisato Pagani – perché nell’incontro con ciò che è diverso, magari sconosciuto, si ha l’occasione di far luce su ciò che sta dentro, nel profondo. A volte qualcuno parte per fuggire dai suoi demoni, ma poi scopre di averli portati con sé, almeno finché non decide di guardare nel profondo».

Sulla stessa lunghezza d’onda si sono sintonizzate anche le parole di don Andrea Lamperti Tornaghi, vicario a Pandino con ben quattro viaggi in Brasile alle spalle. «Penso che mettersi in viaggio sia sempre il tentativo di trovare risposte, a volte parziali, a volte più complete, a questo desiderio di elevarsi, di trovare risposte, di scoprirsi sempre più», ha detto il sacerdote che fa parte della Commissione diocesana della Pastorale missionaria.

Perché questo sia possibile, però, è richiesta una dimensione particolare. Non è sufficiente partire, viaggiare, ma è necessario prendersi del tempo per rimanere, per stare.  «Si tratta certamente di un’esperienza diversa – ha raccontato Paolo Carini, volontario cremonese con decenni di esperienza nel continente africano –. Perché richiede di apprezzare il mondo e le persone con cui ci si trova, di iniziare delle relazioni stabili e continuative. Soprattutto è importante non pensare ai giorni che mancano prima del ritorno. Certamente occorre del tempo per poter realmente entrare in modo continuativo in una realtà diversa, soprattutto in Africa, ma è poi questo a fare la differenza: solo chi rimane davvero lascia il segno».

Infine, un elemento imprescindibile quando si parla di sguardo sul mondo sono i legami. Talvolta spingono a partire, in altri casi costituiscono un elemento che convince a rimanere. «Le connessioni sono fondamentali – ha commentato Roberto Pagani – perché permettono di dare una direzione alla propria storia, di entrare davvero nella realtà in cui ci si inserisce. È un lavoro attivo, in cui è richiesto parecchio impegno, perché c’è molto da lavorare su se stessi».

Nella vita della Chiesa, parlare di legami significa fare riferimento alla comunità. Una comunità aperta al mondo, da cui si può partire, o in cui si viene accolti. «Questo significa imparare ad amare – ha concluso don Lamperti Tornaghi – a diventare capaci di creare legami liberi, capaci di lasciar andare le persone. Solo questo ci permette di avere uno sguardo aperto sul mondo, inteso in senso geografico, e su un altro mondo, che ha a che fare con l’eternità».




Mistero e luci, a Chiesa di casa il Natale nello sguardo dell’altro

 

Vacanze e famiglia, è solitamente questo il modo in cui si è abituati a pensare il Natale. Una giornata di svago, o per alcuni di impegno culinario, da condividere con i parenti, più o meno stretti, e con gli amici. E la Messa, per i cattolici. A mezzanotte o la mattina successiva – qualche volta entrambe – per celebrare il mistero dell’Incarnazione. Ma Natale non è soltanto questo, come ricordano le parole dei tre ospiti della nuova puntata di Chiesa di casa.

«Per molti commercianti – ha raccontato Roberta Caserini, interior e visual designer – i giorni di Natale sono i più intensi, e non è detto che riescano a viverlo insieme alle loro famiglie. In questo, mi sento di dirlo, servirebbe un po’ più di comprensione da parte dei consumatori». Molti, infatti, sono i negozianti che terranno le serrande aperte durante le feste, ma non saranno gli unici a vivere un Natale particolare. Nella comunità San Francesco di Marzalengo, gestita dalla Caritas diocesana attraverso l’impegno delle Suore Adoratrici per l’accoglienza di donne in difficoltà, «le festività hanno un sapore particolare». Sono queste le parole usate da suor Chiara Rossi, che ha sottolineato come «nonostante per molte ragazze sia vivo il ricordo di momenti speciali che ora sono lontani, ogni anno quelli del Natale sono giorni di vera festa, gioia e condivisione. Lo testimoniano l’attesa che li precede, insieme al tanto affetto che la nostra comunità riceve e, a sua volta, dona».

«È poi questo il cuore del Natale – ha sintetizzato don Luca Bosio, parroco dell’unità pastorale Monsignor Antonio Barosi – che, riproponendo ogni anno il mistero dell’Incarnazione, ci mette davanti a un bivio; da un lato la sola realtà, fatta di guerre e dolore, a cui si può rispondere con la stessa moneta; dall’altro un Dio che si fa uomo, bambino, chiedendo di essere accolto nelle pieghe della storia senza però diventarne schiavo. Come cristiani siamo invitati a riflettere su questa scelta, perché il dono che è Gesù, spesso, è scomodo: accoglierlo significa rendersi disponibili ad accettare le prove e le fatiche che la vita porta con sé, ma con la consapevolezza di non essere soli».

La solitudine, in effetti, è spesso vista come il nemico da cui guardarsi durante le feste, nonostante siano sempre di più le persone che si trovano a viverla. Secondo Roberta Caserini, però, «c’è ancora una certa cura per le relazioni. Nel mio piccolo lo vedo dall’attenzione con cui un dono viene scelto, o nei sorrisi dei bambini che si fermano davanti alle vetrine con i loro genitori».

Ancora una volta è la speranza a regnare nel giorno di Natale. «Nella nostra comunità – ha concluso suor Chiara Rossi – non abbiamo desideri utopici. Sappiamo bene che, per le ragazze che vivono con noi, non sempre tutto sarà semplice, o comodo. Quello che cerchiamo di far sperimentare loro è una vicinanza, una presenza amorevole che è poi la presenza del Signore che viene tra noi. Ci sta a cuore che loro sappiano di avere qualcuno su cui poter fare affidamento, come noi possiamo sempre affidarci a quel Figlio che si è fatto uomo per amore».

Il cuore di tutto, dunque, pare proprio sia un certo modo di esserci per l’altro. Per molti, si concretizza con l’esperienza di fede cristiana; per tutti, con un sentimento di vicinanza, condivisione e carità che, come mistero, pervade l’animo umano specialmente nel giorno di Natale.




A Chiesa di casa il valore dell’attesa, in un tempo di cura e di apertura all’altro

 

Non esiste una vita senza attesa, e Maria, madre del Signore, ne è la testimonianza. È partita da questo presupposto la nuova puntata di Chiesa di casa, il talk di approfondimento della Diocesi di Cremona. Attraverso la presenza di tre ospiti, provenienti da mondi estremamente differenti, il focus è stato posto sul verbo «aspettare», con tutte le sfumature che esso può assumere.

«Quello dell’attesa è un tempo che ha un valore proprio – ha spiegato don Alex Malfasi, prete novello e vicario dell’unità pastorale Madonna della Speranza di Castelverde – perché non sussiste solo in funzione dell’evento che precede. Il tempo dell’Avvento, ad esempio, è certamente carico di una promessa, ma richiede di essere vissuto pienamente, giorno per giorno».

La dimensione della cura diventa allora fondamentale. A sottolinearlo anche le parole di Raffaele Leni, agricoltore e allevatore di Cappella Picenardi. «Quando si ha a che fare con la vita, soprattutto se si parla di vita che ancora deve vedere la luce, attenzione e dedizione sono fondamentali. Aver cura significa proprio prendersi a cuore il bene dell’altro. Nel caso del mio lavoro, parliamo di animali e piante, ma ancor di più vale per le persone. È un aspetto fondamentale ed è bello pensare che ognuno di noi, prima di esercitare la vita, ne è stato destinatario».

Ogni essere umano, infatti, richiede particolari attenzioni, già prima della propria nascita. «Quando si aspetta un bambino – ha raccontato Caterina Moretti, insegnante e giovane mamma – si provano molte emozioni diverse: impazienza, curiosità, gioia. Ciò che rimane costante, però, è il desiderio di prendersi cura di quella vita che sta crescendo, sia dal punto di vista materiale che emotivo. Altro aspetto fondamentale è poi la cura della coppia, che si prepara ad accogliere un dono molto prezioso».

Raramente mancano le paure, quando si parla di attesa, sia nell’ambito familiare che lavorativo, ma dalle parole di Raffaele Leni e Caterina Moretti emerge quanto sia centrale il rapporto con l’altro. Condividere i propri timori legati all’attesa affidandosi a chi si ha accanto è parso fondamentale.

La relazione, allora, diventa terreno fertile per vivere il tempo dell’attesa in modo davvero proficuo. Secondo don Malfasi «la comunità è luogo di condivisione in cui prendersi cura gli uni degli altri, in cui prepararsi ad accogliere quella promessa che si rende presente non solo nel giorno di Natale, ma in ogni momento della nostra vita di fede: rendersi conto di quanto si stia camminando nel cammino di sequela del Signore è fondamentale. E parlare di questo in Avvento, all’indomani della festa dedicata all’Immacolata Concezione, è ancora più significativo».

Con questa consapevolezza alle spalle, si aprono allora le ultime due settimane di attesa del Natale che, più delle precedenti, saranno cariche di attesa e desiderio di farsi trovare pronti per le celebrazioni del 24 e 25 dicembre.