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Elezioni europee. Poquillon (Comece): il cristianesimo non è una cultura, è una identità

Ridare “un volto” all’Europa e impegnarsi a “costruire insieme, pezzo per pezzo, il nostro destino comune con politiche che abbiano al centro la persona umana”. È questo l’augurio che fr. Olivier Poquillon, o.p., segretario generale della Comece (la Commissione degli episcopati dell’Unione europea) rivolge a tutti i candidati alle elezioni 2019.  Ci siamo. Da oggi fino al 26 maggio, in 28 Stati membri dell’Unione europea si andrà alle urne per ridisegnarne il volto istituzionale: anzitutto il Parlamento europeo, nei prossimi mesi Commissione, presidente del Consiglio e della Banca centrale. Un appuntamento cruciale per il futuro dell’Europa. Se le date delle elezioni sono diverse da Paese a Paese, tutti inizieranno lo spoglio dei voti alle 23 del 26 maggio, in modo da rendere lo scrutinio una procedura simultanea in tutta l’Unione. “Siamo a una svolta della nostra storia”, dice fr. Poquillon, che da Bruxelles seguirà l’andamento delle elezioni. Alla vigilia di questo importante appuntamento, lancia – parlando al Sir – un augurio: “possiamo prendere oggi decisioni coraggiose per domani. Avremo in futuro sicuramente dei periodi difficili da vivere. Ciò che speriamo è che queste elezioni possano costituire un Parlamento formato da uomini e donne scelti non per assicurare la vittoria di una parte rispetto ad un’altra ma per lavorare insieme alla ricostruzione dei legami sociali tra tutte le componenti della nostra società europea e costruire il bene comune”.

Padre Poquillon, l’Europa sta fronteggiando l’avanzata di sovranisti, populisti ed euroscettici. Come riconquistare nella gente la passione dei Padri fondatori dell’Europa?
È un sentimento largamente condiviso. L’Unione europea è avvertita come una istituzione lontana, sconnessa dalla vita delle persone. Si sente spesso dire: “Bruxelles decide al posto nostro”. La Chiesa ha un ruolo da svolgere, cercando di favorire un discernimento che non si fonda solamente sul sentimento ma anche sulla realtà. E noi vediamo che anche se la realtà è molto diversa, tra Nord e Sud, Est e Ovest, in questi anni sono stati raggiunti progressi importanti di cui hanno tratto beneficio tutti e ovunque. Non mi riferisco solo alla pace e alla sicurezza ottenuti grazie al progetto europeo, ma anche alla possibilità di partecipare alla presa di decisioni comuni.

Bisogna allora fare uno sforzo, perché gli europei possano riappropriarsi del loro destino.

Spesso si dice che la colpa di ciò che non va a livello nazionale è dell’Europa.
Sì, è vero. Oggi siamo globalmente poco informati sulla condivisione delle responsabilità. Tutti i governi, senza eccezione, accusano Bruxelles per ciò che non va e si felicitano per ciò che va bene. Ora, le decisioni del Consiglio sono prese fondamentalmente all’unanimità ed eccezionalmente per maggioranza qualificata. Significa che non ci sono decisioni che vengono prese senza che ciascun Paese non sia stato d’accordo e non abbia partecipato al processo decisionale. Anche quando una decisione viene presa per maggioranza qualificata, sono gli Stati membri che decidono il provvedimento che si vuole porre alla maggioranza qualificata. Con questo voglio dire che niente è imposto agli Stati e nessuna Nazione è stata obbligata a far parte dell’Unione europea. Tutti hanno partecipato alla costruzione dell’Unione di oggi. Vale la pena ricordare che l’Unione europea non è un’organizzazione internazionale, ma l’esercizio congiunto di una parte della sovranità nazionale.

Cosa chiedete ai politici?
Papa Francesco ricorda che la politica è bella e buona quando si mette al servizio delle persone, cioè quando non è potere ma impegno per il bene comune. Dopo le elezioni avremo una maggioranza e delle minoranze, ma tutti saranno chiamati a vivere e lavorare insieme per il bene comune. È questo che chiediamo ai politici: un lavoro collettivo per politiche che abbiano al centro la persona umana.

Lei ha parlato di bene comune, qual è il volto oggi del bene comune per l’Europa?
La risposta è nella domanda. È importante ritrovare un volto. Il problema di cui soffre l’Unione, è che è stata spersonalizzata. Gli emblemi delle nostre principali istituzioni sono gli edifici che le abitano: la Commissione, il Consiglio, il Parlamento. Ma l’Unione europea non è un insieme di edifici né una struttura amministrativa.

L’Unione è innanzitutto il mosaico di popoli che la compongono e che si impegnano insieme nel governo del loro destino comune.

Il nostro destino è comune, che lo si voglia o meno. La vera domanda allora è: che cosa vogliamo fare insieme? È come in un matrimonio: non è più sufficiente stare bene insieme per avere un progetto futuro. Un matrimonio costruito sulla roccia non è fine a se stesso, ma si apre all’altro e si fonda su un progetto comune. Ci possono essere delle diversità, ma come accade in una famiglia, tutti sono impegnati a costruire insieme, pezzo per pezzo, il destino comune. Invece di subirlo, lo si sceglie e lo si costruisce insieme. È questo il progetto europeo.

Per cercare i voti dei cattolici, i politici, in Italia, hanno utilizzato simboli religiosi. Cosa significa per l’Europa essere cristiana?
Nella tradizione cattolica, ciò che è cristiano non è la terra, ma il popolo. E il popolo può dirsi di Dio se si comporta come Corpo di Cristo. È attraverso i suoi comportamenti che il popolo può dirsi cristiano o no. Il Vangelo lo dice: l’albero si giudica dai suoi frutti. Il cristianesimo non è una cultura ma un’identità. Siamo quindi capaci di guardare all’Europa con lo sguardo di Cristo? Di agire come Lui per i più deboli, di andare a toccare l’intoccabile, di dialogare con il nemico?

Guardiamoci dai falsi profeti, da chi utilizza i simboli cristiani per dire il contrario di Cristo.

Giudichiamo l’albero dei suoi frutti. Non è opponendosi agli altri che si costruire l’Europa cristiana, ma convertendoci e diventando cristiani nell’azione sociale, economica, politica, in tutti gli aspetti della nostra vita, come persone e come comunità, in privato e in pubblico.