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Ecumenismo. Il Papa ai luterani: mai più avversari o rivali. La preghiera come «carburante del viaggio verso la piena unità». Papa Francesco riceve la presidenza della Federazione luterana mondiale, guidata dall’arcivescovo nigeriano Musa Panti Filibus

La purificazione della memoria per dare nuovo slancio all’impegno comune. La preghiera come «carburante del viaggio verso la piena unità». L’importanza di non fermarsi, di non indugiare sui risultati raggiunti, perché «nella vita spirituale, come nella vita ecclesiale, quando si sta fermi sempre si torna indietro». Sono alcuni dei passaggi del discorso rivolto dal Papa alla presidenza della Federazione luterana mondiale, guidata dal nuovo presidente l’arcivescovo nigeriano Musa Panti Filibus.

In particolare nella sua riflessione Francesco ha sottolineato come «pregando, si possa ogni volta vederci gli uni gli altri nella prospettiva giusta, quella del Padre, il cui sguardo si posa su di noi amorevolmente, senza preferenze o distinzioni. E nello Spirito di Gesù, nel quale preghiamo, ci riconosciamo fratelli. Questo è il punto da cui partire e ripartire sempre. Da qui guardiamo anche alla storia passata e ringraziamo Dio perché le divisioni, anche molto dolorose, che ci hanno visto distanti e contrapposti per secoli, negli ultimi decenni sono confluite in un cammino di comunione, nel cammino ecumenico suscitato dallo Spirito Santo. Esso ci ha portato ad abbandonare gli antichi pregiudizi, come quelli su Martin Lutero e sulla situazione della Chiesa Cattolica in quel periodo. A ciò ha contribuito notevolmente il dialogo tra la Federazione luterana mondiale e il Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, condotto dal 1967; un dialogo – ha continuato – di cui fare memoria grata oggi, a distanza di cinquant’anni, anche riconoscendo alcuni testi particolarmente importanti, quali la Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione e, da ultimo, il documento “Dal conflitto alla comunione”».
E il pensiero, come ovvio è tornato all’anno scorso, allo storico viaggio a Lund in Svezia durante il quale il Papa ha partecipato all’apertura delle celebrazioni per il 500° anniversario della Riforma di Lutero. Un evento contrassegnato da una dichiarazione congiunta, firmata insieme all’allora presidente della Federazione luterana, il vescovo Munib Yunan. Un momento storico che nelle parole del Pontefice sta a significare come non ci si possa rassegnare «alla divisione e alla distanza che la separazione ha prodotto tra noi. Abbiamo – disse il Papa a Lund il 31 ottobre 2016 – la possibilità di riparare a un momento cruciale della nostra storia, superando controversie e malintesi che spesso ci hanno impedito di comprenderci gli uni gli altri». Soprattutto in considerazione del fatto «che la nostra divisione si allontanava dal disegno originario del popolo di Dio» «ed è stata storicamente perpetuata da uomini di potere di questo mondo più che per la volontà del popolo fedele».
Di qui l’invito, ribadito nell’udienza odierna, all’annuncio del Vangelo che è «priorità del nostro essere cristiani nel mondo». Un annuncio di cui «l’unità riconciliata è parte indispensabile». E che va “tradotta” in una testimonianza comune sul terreno della prassi. Per procedere insieme verso il Signore infatti «non bastano buone idee, ma occorre muovere passi concreti e tendere la mano. Ciò vuol dire, soprattutto, spenderci nella carità, guardando ai poveri, ai fratelli più piccoli del Signore (cfr Mt 25,40): sono i nostri indicatori preziosi lungo il cammino».

Riccardo Maccioni, da “Avvenire”, 7 dicembre 2017

Il viaggio del Papa in Myanmar: cattolici e buddisti insieme per risanare le ferite del Paese

Una citazione per Buddha e una per san Francesco. Potrà sembrare inconsueto l’accostamento da parte di papa Bergoglio, ma basta leggere i due passi per rendersi conto di quanto essi “dialoghino” tra loro. «Sconfiggi la rabbia con la non-rabbia, il malvagio con la bontà, l’avaro con la generosità, il menzognero con la verità», afferma il primo. «Signore, fammi strumento della tua pace. Dov’è odio che io porti l’amore, dov’è offesa che io porti il perdono, […] dove ci sono le tenebre che io porti la luce, dov’è tristezza che io porti la gioia», sottolinea il secondo.

Dialogo, pace e collaborazione, la fanno da padroni anche nell’incontro di Francesco con il Consiglio supremo “Sangha” dei monaci buddisti. Contro «le ferite dei conflitti, della povertà e dell’oppressione », i rappresentanti delle due fedi devono «camminare insieme» e «lavorare fianco a fianco per il bene di ciascun abitante di questa terra», sottolinea il Papa. Risponde il presidente dei monaci, Bhaddanta Kumarabhivamsa, condannando terrorismo ed estremismo.

Il contesto è solenne. Una bella sala con il pavimento in moquette azzurra all’interno del Kaba Aye Center, uno dei templi buddisti più venerati dell’Asia sudorientale. Il Pontefice vi arriva a metà del pomeriggio e viene ricevuto dal ministro per gli Affari Religiosi e la Cultura, Thura U Aung Ko. Quindi il monaco presidente – a capo di un organismo che sovrintende l’ortodossia dei 500mila suoi confratelli sparsi nel Paese – lo fa entrare. Francesco, come prescrivono le regole buddiste, toglie le scarpe restando in calzini neri. Cerimoniale delle grandi occasioni. Le due delegazioni sono una davanti all’altra: i monaci nelle loro vesti arancioni e viola da una parte, il Papa e il seguito dall’altra. Il Pontefice va dritto al punto. Parla di «legami di amicizia e rispetto tra buddisti e cattolici», di stima verso i credenti di questa fede, di «impegno per la pace, il rispetto della dignità umana e la giustizia per ogni uomo e donna. Non solo in Myanmar, ma in tutto il mondo». E ricorda che solo compassione e amore possono portare alla pace. Dunque valori come pazienza, tolleranza, rispetto della vita e dell’ambiente naturale, propri dei buddisti, «possono rafforzare le nostre comunità e l’intera società». È necessario, infatti, «guarire le ferite dei conflitti che nel corso degli anni hanno diviso genti di diverse culture, etnie e convinzioni religiose ». Anche in questo caso il Papa non fa diretto accenno alle vicende dei Rohingya, ma dal complesso delle sue parole si rileva la necessità di un rispetto di ogni minoranza. Parla ad esempio di «pace, sicurezza e prosperità che sia inclusiva di tutti». Sottolinea che «la Chiesa cattolica è un partner disponibile al dialogo» e conclude rilevando che «la giustizia autentica e la pace duratura possono essere raggiunte solo quando sono garantite per tutti». La risposta del presidente dei monaci buddisti è in linea. «Noi, leaders di tutte le religioni del mondo, dobbiamo essere risoluti nella costruzione di una armoniosa società umana». Dunque «non possiamo accettare che terrorismo ed estremismo nascano da una certa fede religiosa ». Essi vengono piuttosto da «cattive interpretazioni degli insegnamenti delle rispettive religioni». Lo scambio di doni, una colomba della pace in una lega di magnesio da parte di Francesco, un quadro della Pagoda d’oro di Yangon da parte del presidente dei monaci, suggella l’incontro. Buddha e san Francesco ne sarebbero stati contenti.

MIMMO MUOLO, INVIATO A YANGON

Da “Avvenire”, 30 novembre 2017

Il Papa in Myanmar e Bangladesh. Da Yangon a Dacca: Vangelo e dialogo tra le fedi

Basta dare un’occhiata alle statistiche sulla popolazione, per cogliere subito la fotografia del viaggio del Papa in Myanmar e Bangladesh. Nel primo dei due Paesi (dove arriverà domani), sui 51 milioni di cittadini, l’87 per cento sono buddisti, con i cattolici (700mila circa) all’1,27 per cento del totale. In Bangladesh, invece, gli abitanti sono quasi 150 milioni, i musulmani l’89 per cento, gli induisti il 10 e i cattolici (375mila) lo 0,24 per cento.
In quest’angolo del sud est asiatico i fedeli della Chiesa di Roma rappresentano dunque una goccia nell’oceano, ma come avrebbe detto Madre Teresa di Calcutta, senza di loro all’oceano mancherebbe una goccia di importanza inversamente proporzionale al numero in quanto a presenza caritativa, contributo alla pacificazione interetnica, sostegno alle fragili democrazie locali. A queste piccole ma determinanti comunità si rivolge dunque innanzitutto il viaggio di Francesco (il 21° del pontificato, con 31 Paesi finora toccati, e che ieri sera ha posto sotto la protezione della Vergine con la visita in Santa Maria Maggiore), che durerà fino a sabato 2 dicembre (il ritorno a Roma è previsto intorno alle 23). Viaggio che, al netto dei lunghi tragitti di andata e ritorno, è diviso equamente tra le due mete: primi tre giorni a Yangon e Nay Pyi Taw (la capitale istituzionale), secondi tre a Dacca.
Il programma tuttavia tiene conto della complessità sociale e religiosa dei Paesi visitati. E infatti segue uno schema che affianca ai momenti con le comunità cattoliche locali le occasioni istituzionali e gli incontri interreligiosi. Anzi, sotto quest’ultimo profilo, l’itinerario si è arricchito di un ulteriore appuntamento, nella mattinata di martedì 28 a Yangon, con le altre fedi che non sono il buddhismo, mentre al Consiglio supremo ‘Sangha’ l’incontro è fissato mercoledì alle 16.15 nel Kaba Aye Centre. A Dacca poi il Papa vedrà i rappresentanti delle diverse religioni venerdì 1° dicembre alle 17 nel giardino dell’arcivescivado. E qui ci sarà anche una delegazione dei Rohingya, la minoranza islamica che in Myanmar non ha cittadinanza ed è stata oggetto di violenze contro le quali lo stesso Francesco si è già pronunciato.
Dialogo interreligioso e contatti con i governi sono a queste latitudini come due facce della stessa complessa medaglia. La rinata democrazia birmana (guidata dal premio Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi) deve infatti fronteggiare da un lato le nostalgie totalitarie dei militari al potere fino a qualche anno fa, dall’altro evitare la tentazione del ritorno a una religione di Stato, per quanto maggioritaria tra la popolazione.
Rischi che anche in Bangladesh corre la pace sociale. L’attentato di matrice Daesh del luglio 2016 (in cui morirono anche nove italiani) è un potente campanello d’allarme in questo senso. Ecco perché in Myanmar il Papa dedicherà diverso spazio agli incontri con il presidente, il consigliere di Stato (la stessa Suu Kyi) con le autorità e il corpo diplomatico e ugualmente farà in Bangladesh, visitando anche il memoriale che ricorda i martiri dell’indipendenza dal Pakistan. A Yangon poi ha anche aggiunto all’agenda l’incontro in privato con il capo dell’esercito, per dimostrare la volontà di dialogare con tutti. Molta parte del suo tempo papa Bergoglio lo trascorrerà con le comunità cattoliche (alle quali negli anni scorsi ha ‘regalato’ per la prima volta un cardinale). Sia a Yangon che a Dacca celebrerà la Messa in pubblico. Nella prima città due volte (e tra l’altro benedirà le prime pietre di 16 chiese, del seminario e della nunziatura), mentre nella capitale bengalese ordinerà 16 nuovi sacerdoti. In entrambe le città il programma della visita si concluderà poi con l’incontro con i giovani. Una scelta voluta che insieme con la visita alla Casa di Dacca dove Madre Teresa si fermava costituisce un messaggio di speranza per il futuro. Con la conferma di una vicinanza ai poveri che in un certo senso sono i veri protagonisti di questo viaggio.

MIMMO MUOLO

Da “Avvenire”, 27 novembre 2017

Il Papa in Bangladesh incontrerà i musulmani sfollati Rohingya, nel campo Balukhali, nella zona di Coxsbazar in Bangladesh al confine con il Myanmar: sono almeno 650mila i civili che hanno attraversato la frontiera

Ci sarà spazio anche per un incontro con un piccolo gruppo di Rohingya (ma a Dacca, in Bangladesh, il primo dicembre) e a Yangon con il capo dell’esercito del Myanmar, generale Min Aung Hlaing (il 30 novembre), nell’agenda del viaggio che il Papa compirà nei due Paesi asiatici da domenica 26 novembre a sabato 2 dicembre. Lo ha annunciato ieri il direttore della Sala Stampa vaticana, Greg Burke, incontrando i giornalisti che parteciperanno al volo papale. I due nuovi appuntamenti, oltre a quello con i rappresentanti delle minoranze religiose a Yangon, capitale dell’ex Birmania, si aggiungono al programma ufficiale della doppia visita, 21° viaggio internazionale di Francesco, che fa salire a 31 il numero dei Paesi finora toccati dal Pontefice.Al di là di alcune difficoltà organizzative (non ci sarà la diretta di tutti gli appuntamenti del Papa, ha anticipato Burke, defininendo l’itinerario old fashioned), il viaggio si annuncia delicato, ma anche molto interessante, proprio a causa della complessa situazione della minoranza islamica Rohingya, perseguitata e costretta a trovare rifugio in Bangladesh (dove so- no 650mila gli sfollati in condizioni di povertà estrema). Persone a favore delle quali Francesco ha più volte levato la sua voce.Il cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, ha recentemente consigliato al Papa di non usare il termine Rohingya durante il viaggio, ma anche di includere gli incontri con le minoranze religiose e con il generale Min Aung Hlaing. Queste due ultime richieste sono state accolte. Sulla prima, ha detto Burke, «aspettiamo e vediamo che cosa dirà il Papa». Sicuramente, ha aggiunto il portavoce vaticano, «il Santo Padre vuole portare ovunque un messaggio di riconciliazione, di pace e di perdono ». La questione si intreccia anche con la situazione dei cattolici che nei due Paesi sono una sparuta minoranza. Poco più dell’uno per cento tra i 51 milioni di abitanti del Myanmar (il 91 per cento dei quali buddisti), nazione per 60 anni oppressa da una dittatura militare, che ora ha lasciato il posto a un governo formalmente democratico (il presidente de facto è il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi), in cui però i militari continuano a contare parecchio, come si è visto anche nella recente escalation di violenza ai danni dei Rohingya. Ancora di meno – lo 0,24 per cento – tra i 160 milioni di bengalesi, al 98 per cento islamici. «Aiutare delle piccole Chiese e Paesi in transizione (verso la democrazia il Myanmar, verso lo sviluppo il Bangladesh, ndr) sono gli scopi principali dell’itinerario papale», ha spiegato ieri Burke. E infatti, Papa Francesco pronuncerà 11 discorsi e benedirà tra le altre cose a Yangon le prime pietre di 16 nuove chiese, del seminario e della nunziatura (i rapporti diplomatici sono stati allacciati solo nel maggio scorso). Inoltre concluderà sia la tappa birmana, sia quella bengalese con un incontro con i giovani. «Un segno di speranza», ha concluso il portavoce vaticano.

MIMMO MUOLO

Da “Avvenire”, 23 novembre 2017

Cattolici e ortodossi, 10 anni fa l’incontro a Ravenna

Il documento di Ravenna compie dieci anni. La decima plenaria della Commissione mista per il dialogo tra cattolici e ortodossi si riunì nella città dei mosaici tra il 7 e il 15 ottobre 2007 e il 13 le delegazioni firmarono un documento destinato a cambiare in parte la strada del dialogo ecumenico all’interno della cristianità. Al centro dell’accordo il tema della «conciliarità e autorità» nella comunione ecclesiale: per la prima volta, in un documento ufficiale, cattolici e ortodossi concordarono sul fatto che la Chiesa è universale e che il vescovo di Roma, la Chiesa che presiede nella carità, rappresenta in essa un «protos» tra i patriarchi. Le differenze stavano e stanno tuttora nell’interpretazione diversa tra Chiese d’Oriente e di Occidente di questa primazia. Ma un passo significativo verso l’unità, dal punto di vista teologico, in quei giorni venne compiuto, grazie al cardinal Walter Kasper che guidava la delegazione cattolica, e a Ioannis Zizioulas, metropolita di Pergamo, rappresentante del Patriarcato di Costantinopoli. A fare da padroni di casa, invece, l’allora arcivescovo di Ravenna-Cervia, Giuseppe Verucchi, e il direttore dell’Opera di religione, don Guido Marchetti. «Ravenna per un momento era tornata il centro della cristianità – ricorda Enrico Maria Saviotti, oggi direttore dell’Ufficio comunicazioni sociali della diocesi, tra gli organizzatori di quell’incontro –. La cristianità delle origini, ante scisma del 1054, sotto l’egida della croce di Agnello. Ravenna rappresenta tanta parte di quel mondo perché i suoi luoghi sacri, basiliche e battisteri, evocano un tempo in cui la Chiesa era ancora indivisa, dove non si conosceva la distinzione tra cattolici e ortodossi».
Il documento di Ravenna non fu una meteora nel dialogo ecumenico. La mancata ratifica da parte della Chiesa russa fu un limite del documento firmato dieci anni fa che segnò una empasse fino a qualche anno fa. Ma dopo lo storico incontro tra papa Francesco e il patriarca di Mosca Kirill e con il progredire dei rapporti interni all’ortodossia, nel settembre dell’anno scorso si è giunti a un altro passo importante, con la firma del documento di Chieti, anche da parte della Chiesa russa. “Regista” dell’assemblea che ha portato al documento è stato Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto e consultore del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani: «Il documento di Chieti è uno sviluppo di quello di Ravenna – spiega Forte – che a suo tempo ha rappresentato uno sfida per il dialogo che ha aperto sul concetto di sinodalità e lo ha indirizzato verso il primato della Chiesa di Roma».

DANIELA VERLICCHI

Da “Avvenire”, 23 novembre 2017

Dialogo ebraico-cattolico: Commissione bilaterale ebraico-cattolica, “ripudio della strumentalizzazione della religione per fini violenti”

Il ripudio della strumentalizzazione della religione per fini violenti, l’impegno a preservare la santità e la dignità della vita umana e la necessità di far conoscere sempre di più i risultati raggiunti nel campo delle relazioni ebraico-cattoliche, attraverso la collaborazione con gli Istituti di istruzione superiore e i mass media: sono alcune delle conclusioni riportate nella dichiarazione congiunta emessa al termine dell’incontro della Commissione bilaterale composta dalla Delegazione del Gran Rabbinato di Israele, guidata dal rabbino Rasson Arussi, in dialogo con la Commissione per i Rapporti religiosi con l’Ebraismo della Santa Sede, guidata dal card. Peter Kodwo Appiah Turkson, prefetto del Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale, che si è svolta dal 12 al 14 novembre a Gerusalemme con a tema il documento ebraico-ortodosso “Between Jerusalem and Rome” (Tra Gerusalemme e Roma), presentato a Papa Francesco, in Vaticano, lo scorso 31 agosto. Nella dichiarazione finale la Commissione bilaterale ribadisce il “legame unico che la Chiesa riconosce con Israele e della posizione unica che il dialogo con l’ebraismo occupa per i cristiani. Per le sue radici il Cristianesimo è legato all’ebraismo come nessun’altra religione”. Da parte ebraica si afferma che “la trasformazione negli atteggiamenti e nell’insegnamento della Chiesa non è solo sincera ma anche sempre più profonda, e stiamo entrando in un’era di crescente tolleranza, reciproco rispetto e solidarietà tra i membri delle nostre rispettive fedi”. Da qui l’urgenza di collaborare ancora di più, Chiesa cattolica e Popolo ebraico, “nel combattere i flagelli violenti che affliggono il nostro mondo oggi e nel lavorare insieme per un mondo migliore per tutta l’umanità”. “L’imperativo comune” di entrambi le fedi è dunque “l’istaurazione del Regno dei Cieli sulla terra”.

Da “SIR”, 17 novembre 2017

Le radici ebraiche del dialogo ecumenico. Milano ricorda l’impegno della teologa Clara Achille. Tra i relatori anche il prof. Mario Gnocchi

«Le radici ebraiche del dialogo tra le Chiese cristiane. Il contributo del Sae e di Clara Achille» è il titolo del convegno in programma domani, 23 novembre 2017, alle 15 presso la Fondazione culturale Ambrosianeum di Milano, in via delle Ore 3. Il motivo che ha portato a questo appuntamento, spiegano i promotori, cioè il Segretariato attività ecumeniche (Sae) e la Fondazione Ambrosianeum, è «la prematura morte di Clara Achille Cesarini, teologa esperta di ecumenismo e studiosa dell’ebraismo. Clara Achille è stata responsabile del gruppo Sae di Milano, segretaria del Gruppo teologico, curatrice scrupolosa degli atti delle sessioni, coordinatrice del servizio newsletter e redattrice delle sezioni del sito dedicate agli aggiornamenti sui documenti del Consiglio ecumenico delle Chiese (www.saenotizie.it). Nella realtà milanese intrattenne rapporti con numerosi enti culturali, tra cui l’Ambrosianeum, dove organizzò spesso incontri su tematiche ecumeniche». Il programma di domani prevede, in apertura, gli interventi di Marco Garzonio, presidente Ambrosianeum («Introduzione ai lavori, con un ricordo di Clara Achille») e di Mario Gnocchi, ex presidente Sae («Presentazione dell’incontro e dell’attività del Gruppo teologico Sae»). Seguiranno dalle 15.30 Daniele Garrone, biblista, docente alla Facoltà teologica valdese di Roma; Vladimir Zelinsky, teologo e presbitero della parrocchia ortodossa Santissima Madre di Dio Gioia degli Afflitti di Brescia; Piero Stefani, biblista cattolico e presidente del Sae. Alle 17 il dibattito e le conclusioni di Stefani.

Da “Avvenire”, 22 novembre 2017

Riconciliarsi per annunciare il Vangelo. Dichiarazione comune della CEI e della Chiesa Evangelica Luterana in Italia

«Piuttosto che i conflitti del passato, il dono divino dell’unità tra di noi guiderà la collaborazione e approfondirà la nostra solidarietà. Stringendoci nella fede a Cristo, pregando insieme, ascoltandoci a vicenda, vivendo l’amore di Cristo nelle nostre relazioni, noi, cattolici e luterani, ci apriamo alla potenza di Dio Uno e Trino.
Radicati in Cristo e rendendo a Lui testimonianza, rinnoviamo la nostra determinazione ad essere fedeli araldi dell’amore infinito di Dio per tutta l’umanità» (Dichiarazione congiunta in occasione della Commemorazione cattolico-luterana della Riforma, Lund 31 ottobre 2016). Queste parole hanno guidato il cammino di riconciliazione e di condivisione che ha coinvolto cattolici e luterani in tanti luoghi, in questo anno, per vivere l’esperienza di una commemorazione comune del 500° anniversario dell’inizio della Riforma, nella linea indicata dal documento Dal conflitto alla comunione della Commissione luterano-cattolica per l’unità.
In Italia numerose sono state le iniziative, a vario livello, alle quali hanno preso parte cristiani e cristiane per commemorare la Riforma del XVI secolo in un spirito che, se non può essere considerato una novità alla luce dei passi compiuti negli ultimi decenni, ha sicuramente aperto una nuova stagione nel cammino per la costruzione dell’unità visibile della Chiesa con la quale mettere fine allo scandalo delle divisioni.
Proprio alla luce di queste iniziative, cattolici e luterani auspicano che sia possibile proseguire nell’approfondimento della conoscenza dell’opera e della figura di Martin Lutero per una migliore comprensione delle ricchezze spirituali, teologiche e liturgiche del XVI secolo per una riforma della Chiesa, radicata sulle Sacre Scritture e arricchita dalla tradizione dei concili ecumenici, in grado di rimuovere quei pregiudizi che ancora impediscono una lettura condivisa delle vicende storiche della Riforma in tutte le sue articolazioni.
Nella lettura congiunta delle Sacre Scritture, che costituisce un passaggio fondamentale, da anni, nella scoperta quotidiana di cosa unisce i cristiani, cattolici e luterani invitano a trovare nuove fonti per sviluppare il cammino ecumenico, anche grazie a un rinnovato rapporto con il popolo ebraico proprio a partire dalla comune radice biblica. Leggere insieme le Sacre Scritture illumina l’esperienza di fede con percorsi ecumenici di ascolto e commento della Parola di Dio in modo da condividere tradizioni esegetiche e formulazioni dottrinali, affidando al Signore i tempi e i modi della realizzazione dell’unità visibile della Chiesa.
Cattolici e luterani ritengono che questi percorsi vanno sostenuti e incoraggiati nella prospettiva di favorire un ripensamento della catechesi in chiave ecumenica, soprattutto in relazione alla celebrazione del battesimo e del matrimonio e, più in generale, alle liturgie ecumeniche di riconciliazione, così da aiutare a vivere questi momenti della vita delle comunità locali come opportunità per riaffermare che per cattolici e luterani l’ecumenismo costituisce una scelta irreversibile, quotidiana, non emergenziale, in grado di aiutare una migliore comprensione delle proprie identità, rendendo più vivace e pregnante la missione della Chiesa.
Cattolici e luterani vogliono rendere sempre più dinamico il proprio impegno nella cura della creato, proponendo un modello di sviluppo economico che non sia interessato alla logica del profitto, che tanti danni ha fatto anche nel nostro paese con l’inquinamento dell’aria, delle acque e della terra, ma, superando gli interessi individuali o di gruppo, sappia utilizzare le risorse del creato nel rispetto dell’ambiente e avendo sempre di mira il bene comune e quello stesso della terra di cui siamo custodi e non padroni.
Per cattolici e luterani, le peculiarità del cammino ecumenico devono portare a moltiplicare le occasioni per testimoniare l’amicizia e l’aiuto verso i poveri, in particolare oggi verso i migranti che fuggono da guerre e calamità naturali. Davanti al bisogno loro e anche di un numero crescente di nostri concittadini, ci impegniamo a coinvolgere le nostre comunità in uno sforzo maggiore di solidarietà, avendo sempre come modello il Buon Samaritano, quel Gesù che si china sulle ferite dell’umanità sofferente.
Siamo aperti a collaborare con tutti i nostri fratelli e sorelle a cui ci accomuna la fede nel Signore Gesù, ed anche con le donne e gli uomini di altre religioni e con tutti coloro che hanno a cuore il futuro del nostro paese e del mondo. Rafforzare l’amicizia nella fraternità, ai piedi della croce di Cristo, ci aiuterà a favorire una riconciliazione delle memorie in grado di sostenere cattolici e luterani nell’annuncio e nella testimonianza della Parola di Dio nella società contemporanea, per promuovere una riforma sempre più evangelica della vita quotidiana delle comunità locali.

Ambrogio Spreafico, Presidente Commissione Episcopale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Conferenza Episcopale Italiana

Pastore Heiner Bludau, Decano della Chiesa Evangelica Luterana in Italia

Tratto da ecumenismo.chiesacattolica.it

Lutero e quella sfida di rinnovamento. Le 95 tesi affisse 500 anni fa. Mons. Spreafico: rileggere la Riforma oltre le divisioni

Sul portale della chiesa del castello di Wittenberg le 95 Tesi del monaco agostiniano Martin Lutero sono oggi incise nel piombo delle due ante. È facile trovare gruppi di turisti o pellegrini che si fermano di fronte al cancello che protegge questo “simbolo” della Riforma. Già, perché soltanto di un segno si tratta nonostante la tradizione voglia che Lutero abbia affisso le Tesi all’ingresso della chiesa della cittadina tedesca che adesso viene considerata una sorta di capitale mondiale del luteranesimo. Proprio cinquecento anni fa, nella giornata di oggi, il 31 ottobre 1517, il religioso propose alla pubblica discussione la sua dichiarazione sull’efficacia delle indulgenze. E lo fece, come lui stesso scrisse, «per amore e desiderio di elucidare la verità».

«Ricordare quell’evento significa ricomprenderlo nel suo significato al di là delle incrostazioni storiche e teologiche che hanno portato cattolici e luterani lontani per troppo tempo», spiega il vescovo di Frosinone-Veroli-Ferentino, Ambrogio Spreafico, presidente della Commissione episcopale Cei per l’ecumenismo e il dialogo. «La Riforma – osserva – si inserisce in uno spirito di rinnovamento che animava la Chiesa già dal XV secolo e che in Lutero trovò senza dubbio un impulso decisivo. Come dice il cardinale Walter Kasper, “Lutero era un uomo desideroso di rinnovamento, non un riformatore”. E le sue 95 Tesi non furono anzitutto un programma di separazione dalla Chiesa cattolica, ma un’istanza di rinnovamento profondo. Poi la storia portò a una frattura che crebbe per diversi fattori fino ad apparire insanabile». Spreafico vede nell’anniversario che si celebra in questi mesi l’occasione per una «rilettura della Riforma». «Tutto ciò – afferma – può rafforzare un processo di riconciliazione tra di noi, riconoscendo le ferite della separazione, come ha sottolineato papa Francesco un anno fa a Lund. Inoltre riconciliarsi chiedendo perdono nella preghiera comune per il peccato della divisione rappresenta già un passo deciso verso l’unità».

Il Pontefice ha evidenziato che uno dei lasciti della Riforma è la prossimità alla Scrittura. «Senza dubbio – chiarisce Spreafico – la centralità della Parola di Dio posta da Lutero a unico fondamento della vita cristiana aiuta anche noi cattolici a riscoprirne il valore centrale nella nostra vita di fede. Il Concilio Vaticano II e più recentemente il Sinodo sulla Parola di Dio hanno insistito che questa è la “roccia” su cui imperniare la nostra fede». Però c’è anco- ra molto da fare in questa direzione. «Tra i cattolici – prosegue il vescovo – la Bibbia rimane ancora troppo lontana e sovente sconosciuta ai più. Mi ha colpito ad esempio come non sia stato accolto con entusiasmo l’invito di papa Francesco nella Misericordia et misera a dedicare interamente una Domenica dell’Anno liturgico alla Parola di Dio».

Sempre il Papa ha evidenziato l’importanza di “riformare” la Chiesa. «La riforma – spiega Spreafico – rimane la richiesta fondamentale per ognuno singolarmente e per le diverse confessioni cristiane. Questa dimensione è stata molto sottolineata sia nell’impostazione delle celebrazioni dei 500 anni sia nei convegni che si sono svolti in Italia e altrove. Francesco con il suo magistero si è posto senza dubbio nello spirito di una necessaria e urgente riforma della Chiesa in senso evangelico e missionario. La Chiesa “in uscita” di cui ci parla nell’Evangelii gaudiumsi pone non in una prospettiva istituzionale, ma si lascia interrogare quotidianamente dal Vangelo e dai segni dei tempi».

Snodo nel cammino di avvicinamento è stato la Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione del 1999. «Quel testo così profondo e complesso, frutto di un lavoro paziente e attento a trovare ogni volta le parole giuste per non intaccare le verità in cui noi crediamo, è stato purtroppo dimenticato. C’è stata la critica di alcuni teologi da parte evangelica e non se n’è fatto motivo di riflessione all’interno della nostre Chiese. Questo non doveva avvenire, perché la Dichiarazione tocca un aspetto fondamentale del nostro comune patrimonio di fede che era anche alla base della divisione».

Eppure su alcune questioni restano le distanze. «I punti non sono pochi – ricorda il presidente della Commissione Cei – e riguardano differenze dottrinali, tra cui ad esempio la questione ecclesiologica e quindi i ministeri, alcuni Sacramenti, in particolare l’Eucaristia, oltre al principio di autorità, strettamente legato alla dottrina sulla Chiesa e alla successione apostolica, oppure il culto della Vergine Maria e dei santi. Oggi tuttavia abbiamo creato un clima nuovo, frutto di tanti piccoli sforzi di molti gruppi e comunità cristiane da ambo le parti che ci hanno permesso di superare antiche diffidenze e pregiudizi, pur nel rispetto delle differenze. Credo che dobbiamo continuare a incontrarci, ad ascoltarci e a parlarci. Conoscere l’altro e costruire relazioni rimangono la via migliore per rispettarci e arricchirci reciprocamente. Bisognerà senza dubbio continuare la riflessione teologica, come si è fatto sulla dottrina della giustificazione. Ma ci vorranno tempo, molta preghiera e gesti di carità condivisi». In questi mesi in Italia sono state numerose le iniziative per celebrare la Riforma organizzate da diocesi e parrocchie. «Anche l’Ufficio Cei per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso con la Commissione episcopale è stato protagonista di molti incontri significativi come i due convegni (Trento lo scorso anno e Assisi quest’anno) che per la prima volta sono stati organizzati insieme alle Chiese evangeliche italiane. Si tratta di un fatto non secondario nella ricerca di una comune riflessione e interpretazione delle vicende di questi secoli dalla Riforma. Sono fiducioso. Si è aperta una strada che siamo chiamati a percorrere con fiducia e speranza. E la crescita dell’unità tra di noi è segno per un mondo che sembra andare al contrario e costruisce i muri e incentivare le divisioni».

GIACOMO GAMBASSI

Da “Avvenire”, 31 ottobre 2017

Per la Chiesa è sempre tempo di Riforma. Una riflessione di Enzo Bianchi a 500 anni dalle Tesi di Wittenberg

Nella nostra lettura della storia abbiamo sempre bisogno che ogni “svolta epocale” sia contrassegnata da una data, un luogo e un evento precisi e – qualora questi non siano sufficientemente definiti o significativi, li si colora di e enfasi e di risvolti non sempre verificabili. Così il lento processo che conduce a una realtà non immaginabile fino a poco tempo prima si cristallizza in un punto preciso della storia fino a fargli assumere connotazioni leggendarie. È avvenuto così per la riforma protestante.
E ormai opinione prevalente tra gli storici che l’immagine così nitida del monaco agostiniano Martino Lutero – che il mattino del 31 ottobre 1517 affigge sul portone della chiesa del castello di Wittenberg un foglio contenente 95 tesi – sia con ogni probabilità un evento mai avvenuto nelle modalità che l’iconografia classica ha descritto per secoli. Eppure oggi, a cinquecento anni esatti da quel giorno, ci ritroviamo giustamente a fare memoria di tutto ciò che quell’immagine racchiude: un profondo, sofferto desiderio di riforma evangelica dell’unica Chiesa di Dio. In verità la Chiesa ha sempre sentito nei suoi membri il bisogno, l’anelito alla conversione, alla riforma; ma se nel primo millennio questa “riforma” ha un significato essenzialmente individuale e spirituale di conversione interiore, nel secondo millennio è stata invocata quale rinnovamento della chiesa, della sua forma istituzionale, quale ritorno alla primitiva forma ecclesiae: un atto di obbedienza allo Spirito e a “ciò che lo Spirito dice alla Chiesa”.
Ma cosa può indicare il termine “riforma”, ? Nel cristianesimo, che è ricezione della rivelazione, viene data una forma canonica, più che esemplare: la , la forma della , la . Dunque la riforma è azione per riportare alla forma canonica ciò che con il passare del tempo è stato oscurato, ferito o addirittura perduto: è azione di conversione, di ritorno. Innanzitutto questo movimento deve essere incessante, “finché verrà il Signore” : proprio in attesa di quel giorno della parusia, la Chiesa, la sposa, deve farsi bella per il suo sposo (cf. Ap 21,2), deve riformarsi per essere secondo la forma nella quale lo Sposo attende. In questo senso la riforma della Chiesa è epiclesi della parusia.
Ma il termine “riforma”, soprattutto nel secondo millennio in occidente, ha avuto il significato di ritorno alla primitiva forma perduta o molto contraddetta. La tradizione cristiana ha sempre guardato ai sommari degli Atti degli apostoli (At 2,42-45; 4,32-35; 5,12-16), nei quali viene presentata la chiesa nata dalla Pentecoste, come descrizione della Chiesa voluta dal Signore e plasmata dallo Spirito Santo, dunque come sua forma canonica in ogni tempo nella storia. La descrizione della comunità primitiva ha ispirato costantemente la vita cristiana, anche se occorre sempre ribadire che solo il Signore Gesù può riformare la Chiesa, così come solo Dio può fare il dono della conversione, come affermava sant’Agostino: «Proprio colui che ti ha formato sarà anche il tuo riformatore». Sì, la Chiesa, in quanto istituzione umana, in quanto organismo nella storia, deve essere riformata e purificata, per essere conforme alla volontà del suo Signore. Solo una sordità istituzionale a istanze di riforma presenti nella Chiesa d’occidente fin dagli inizi del secondo millennio, condurrà la volontà riformatrice di Lutero agli esiti laceranti che abbiamo conosciuto: la riforma tanto desiderata, a causa del suo ritardo diverrà così scisma, rottura, irreparabile divisione della Chiesa cattolica. Dopo gli eventi della Riforma protestante vi sarà di fatto una Riforma cattolica (a lungo definita Controriforma) dovuta al concilio di Trento e soprattutto ai santi riformatori e alle loro fondazioni religiose.
Tuttavia la parola “riforma” non godrà di buona fama nella Chiesa cattolica dopo il grande scisma del XVI secolo, definito ancora nel 1937 dal «la rivoluzione protestante». Presente al cuore del secolo scorso quale titolo di un libro decisivo di Yves Congar – il termine “riforma” ricorre solo due volte nei documenti conciliari ed entrambe le volte nel decreto sull’unità dei cristiani, .Vi è una tale diffidenza verso questo termine, che il testo ufficiale latino dell’enciclica di Paolo VI (1964) traduce il vocabolo italiano “riforma” presente nel manoscritto del papa con il più neutro A partire dal Vaticano II il termine “riforma” è stato comunque reintrodotto nel dibattito ecclesiale cattolico, anche se appare raramente nei testi del magistero papale. Il suo uso con papa Francesco è diventato più frequente, quasi un termine programmatico del suo pontificato: riforma, potremmo dire con il concilio di Costanza (1414-1418), «in capite et in membris », cioè riforma di tutta la Chiesa, dal papato a ogni battezzato.
Così il cammino di rilettura della riforma protestante compiuto in questo anno commemorativo ha assunto una forte valenza ecumenica e di riconciliazione, aiutando le Chiese a passare “dal conflitto alla comunione”. Stiamo forse assistendo a quanto auspica, ormai ultracentenario, il teologo gesuita francese loseph Moingt nel libro che raccoglie i suoi scritti dedicati all’urgente riforma della Chiesa? Il titolo ben riassume l’anelito di ogni riformatore e di ogni istanza riformatrice: “Il Vangelosalverà la Chiesa”. Sì, attraverso la sua obbedienza alVangelo, al suo tentare ogni giorno la riforma, la Chiesa attenderà la parusia con maggiore fedeltà al Signore, per essere la sposa bella, pronta per il suo Sposo, Gesù Cristo il Signore.

ENZO BIANCHI

Da “Avvenire”, 29 ottobre 2017