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“E non ci indurre in tentazione”: a Soresina il travolgente intervento di don Marco Pozza

Travolgente. Ha preso la parola alle 21.05 e quando ha concluso il suo intervento in sala Mosconi a Soresina, dove giovedì 8 marzo è stato invitato per il terzo Quaresimale, l’orologio segnava le 22.40. Don Maro Pozza, cappellano del carcere di sicurezza “Due palazzi” di Padova, non ha solo il dono di un linguaggio accattivante ed efficace, ma trasmette una “passione” incredibile: per Cristo, per la Chiesa di Cristo e per i “poveri cristi” del penitenziario, i “suoi parrocchiani” – come li definisce lui –  dei quali è pastore e compagno di viaggio.

Non è indulgente verso di loro. Chiama i loro crimini per nome: omicidio, stupro, pedofilia, terrorismo, mafia… Ma si rifiuta – e lo ripete gridando – di identificarli con i loro delitti. Sono persone che si sono macchiate di brutalità inconfessabili. Sono certamente grandi peccatori, ma sono persone: anzi, sono figli di Dio. Che si rendono conto dell’enormità del male compiuto “rimanendo vicino a chi fa il bene”. Lo ha sottolineato con forza il “prete dei galeotti”: solo il confronto con il bene evidenzia l’assurdità del male.

Dopo una decina di minuti dall’inizio del suo intervento don Marco, che è rimasto in piedi con il microfono in mano, sta sudando: urla, si arrabbia, si commuove… sconcerta e sorprende. Non propone semplicemente una catechesi, ma annuncia la bellezza del Vangelo: “Sono disposto a rinnegare la mia fede in Cristo – dichiara – se qualcuno ha da propormi qualcosa di meglio. Io, però, che sono molto esigente e non mi accontento facilmente – aggiunge – finora non ho trovato nulla e nessuno che possa sostituire Gesù nella mia vita”.

Don Marco è un prete giovane e scanzonato, “libero” – dice lui – ma di una profondità spirituale che affascina e “travolge”. Racconta e si racconta: non può prescindere dalla sua esperienza con gli “scarti della società”.

Gli aneddoti si susseguono, ma non come un’antologia che soddisfa la curiosità. Piuttosto, come una “ricchezza” da condividere.

La gente, nel Salone Mosconi, rimane incantata: ascolta, rapita dalla spontaneità e dal “misticismo” con cui il “prete da galera” spiega la preghiera del “Padre nostro”. Scaturito da una richiesta dei discepoli, desiderosi di scoprire il “segreto” di Gesù, della sua irriducibile singolarità, della sua assoluta fedeltà alla volontà del Padre.

Ma l’intervento di don Marco si sviluppa, in particolare, sull’esperienza della “tentazione”: “E non ci indurre in tentazione”. Per dire che siamo tentati al male perché siamo liberi. La tentazione è il prezzo della libertà, condizione necessaria all’amore autentico: “Se sono tentato – grida grondante di sudore don Pozza – significa che sono libero: di scegliere Dio o quel bastardo di Satana! Quando arriva la tentazione ho davanti a me due strade, anzi due volti: quello di Cristo che mi ama da sempre e quello di Lucifero, che ammicca per sedurmi. Tocca a me decidere”. Sapendo che “quel porco di Satana – sono ancora parole sue – non mi assicura contro i danni del peccato e mi lascerà solo ad assaporarne la disgustosa amarezza… Dio, invece, è lì, anche dopo il mio peccato, come un padre pronto a corrermi incontro e ad abbracciarmi nonostante gli abbia sbattuto la porta in faccia per inseguire le mie illusioni di libertà”.

Relazione di don Pozza (prima parte)

Relazione di don Pozza (seconda parte)

Ha ragione papa Francesco, e don Marco che ha un’ammirazione tenera e filiale per il pontefice lo ribadisce con insistenza: bisogna chiedere a Dio di non abbandonarci nella tentazione. Invocando anche la tutela materna della Vergine Maria, acerrima  nemica del Menzognero.

 

 

Don Pozza e l’intervista a papa Francesco

Don Marco Pozza è un volto televisivo noto, per il commento del Vangelo il sabato pomeriggio nella trasmissione “A sua immagine” di Rai1 e perché per TV2000 ha condotto, in nove puntate, il programma “Padre nostro”, una sorta di conversazione con papa Francesco sulla preghiera che Gesù.

Il dialogo con il Pontefice (nell’intervista il Papa e il giovane sacerdote si danno del “tu”) ha prodotto un libro “a quattro mani”, di facile lettura e di una “chiarezza papale”, intitolato “Quando pregate dite: Padre nostro”. Non è il primo che don Marco pubblica. Ha già dato alle stampe diversi testi, tre dei quali, tanto profondi quanto intriganti, sulla figura di Cristo.

Il Pontefice, nel colloquio con il sacerdote padovano, ha introdotto una significativa variante alla traduzione italiana della preghiera provocando un certo scalpore nell’opinione pubblica: “E non abbandonarci alla tentazione”. Poiché – ha precisato papa Francesco – “sono io a cadere, non è Dio che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto. Un padre non fa questo: un padre aiuta ad alzarsi subito. Chi ci induce in tentazione è Satana… Il senso della nostra preghiera è: “Quando Satana mi induce in tentazione tu, o Dio, per favore, dammi la mano, dammi la tua mano!”.

La replica di don Marco al Santo Padre è altrettanto interessante: “E’ anche vero, però, che quando sono tentato mi rendo conto di quanta grazia mi ha dato Dio nel cuore: forse non me ne sarei accorto se non fossi stato tentato!”. Il cappellano del penitenziario, “prete da galera” come ama definirsi, sa che la peggiore prova per i suoi fratelli e sorelle detenuti è la disperazione: “Nella nostra parrocchia del carcere – spiega – la tentazione più grande con la quale Satana tenta ogni mattina di sedurci il cuore è sussurrare: Lasciate stare, tanto non cambia niente, è tutto tempo perso!”.

Classe 1979, padovano di origine, si definisce “uno straccio di prete al quale Dio si intestardisce ad accordare simpatia e misericordia”. Ha studiato a Roma ed è dottore in Teologia. Esercita il suo ministero nel carcere “Due palazzi” di Padova, che egli considera la “sua” parrocchia: una delle tante “periferie esistenziali” amate dal Pontefice.

Nell’Anno Santo della Misericordia, infatti, con “una mossa a sorpresa” papa Francesco ha trasformato i pesanti cancelli delle prigioni di tutto il mondo in altrettante “porte sante” per ottenere l’indulgenza giubilare: chi l’avrebbe mai detto che i “poveri cristi” reclusi in una “casa circondariale” sarebbero stati scelti, direttamente dal Vicario di Cristo, per essere “sentinelle della misericordia”? Scrive don Pozza: “La Chiesa è come la mamma di un detenuto: sa metterci la faccia per suo figlio, anche nei sentieri della perdizione”.