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Don Germiniasi dopo 15 anni visita la parrocchia brasiliana dove iniziò il suo servizio

Manca un centinaio di chilometri e siamo sulla linea dell’Equatore, nello stato amazzonico del Parà all’estremo nord dove il Brasile è bagnato dall’oceano Atlantico e a Natale Gesù non viene mai al freddo e al gelo, in una cittadina tranquilla quasi insignificante: Magalhães Barata, un comune che non arriva a diecimila abitanti.

Qui, a quattro ore di aereo da Sao Paulo, portone di entrata per chi viene dall’Europa, inizia il mio viaggio che per me ha un significato diverso perché non son venuto da turista, ma semplicemente per incontrare volti e luoghi già noti e rivedere persone con cui ho sognato, sorriso e sofferto. Ritorno a casa perché è un po’ casa mia; qui ci sono nato e cresciuto come prete “Fidei donum”, imparando a balbettare i primi strafalcioni di portoghese in mezzo alla gente semplice e umile che, per incoraggiare chi viene di fuori, anche se lo capisce poco, lo elogia come uno che sa parlare molto bene.

Magalhães, come dimenticare? Certo, dopo quindici anni di assenza, molte cose sono cambiate: i bambini di allora, oggi son già mamme e papà, strade nuove son nate disboscando la foresta, qualcuno ha aumentato il suo negozio, il cellulare non è più cosa esclusiva per pochi privilegiati, ma in altre cose sembra che il tempo si sia fermato. È Magalhães dalle casette di taipa, pareti dall’orditura in legno e imbottite di fango che il sole compatta e consolida da sembrare cemento. Magalhães dalle strade di terra battuta che le forti piogge erodono e scavano in solchi profondi. Magalhães della povera gente, dove ancora la banca non è arrivata perché mancano i soldi, dove molti sono i malati ma non c’è ospedale e si muore ancora per il morso di un serpente, paese di pescatori e barcaioli, dove gamberi e granchi fanno parte del quotidiano, dove la luna, che fa alzare la marea due volte al giorno, permette alle barche di prendere il largo per la pesca.

Magalhães dalle bacche esotiche più diverse come l’açaì e il tucumã, dove si lavora ancora la mandioca col tipitì per farne la farina puba cotta al forno, dove si trovano ancora, agli incroci delle strade, il tacacà e il vatapà, cibi di origene afro-indigena, dai gusti strani per noi europei, per non parlare della maniçoba, di cui mai sapremo apprezzarne i venti giorni di cottura nel paiolo, per essere pronta nei giorni di festa.

Magalhães, dove ad ogni angolo pullula vita, giochi di bambini spensierati, padri di famiglia senza lavoro, giovani senza futuro, bambine già donne. Magalhães dal calore equatoriale che ti cuoce il cervello e dal calore umano che scalda il cuore e ti fa sentire amato.

A Novembre si rincorrono i giorni più belli e attesi di una comunità in festa che celebra con solennità la sua patrona, la Madonna di Nazareth, devozione arrivata coi conquistatori portoghesi. Giorni di messe allo spuntar del sole, processioni e regate in cui l’immagine è portata pellegrina, di comunità in comunità a piedi, in auto e su barche addobbate. Nessuna comunità deve rimanere fuori, tutte sono visitate dalla Vergine che passa di strada in strada, porto in porto tra canti, preghiere, applausi, fuochi di artificio e processioni a non finire. E, proprio in una di queste, sotto il sole superbo dell’equatore, mentre accompagnavo una folla di devoti che si accalcava movendo nel tumulto una nuvola di polvere, mi si avvicinò una donna di mezza età, sconosciuta, che mi asciugò il volto, pregandomi di tenere quel fazzoletto come ricordo. Mi son sentito Gesù davanti alla Veronica, tanto piccolo davanti ad un gesto tanto grande e gratuito che non sapevo come ricompensare. Confesso che non ho trattenuto le lacrime e conservo quel fazzoletto che profuma di tenerezza, come una reliquia.

Magalhães non finisce mai di stupirmi, la più piccola tra le città di Giuda, dove manca tutto perfino lo specchio in bagno, l’acqua nella doccia, i duecento venti wolts nelle prese elettriche, la benzina al distributore, ma resta sempre la pupilla degli occhi di Dio. Qui uno straniero si é sentito amato. Qui Gesù è nato.

don Maurizio Germiniasi