Esperienze brevi

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ESPERIENZA ESTIVA 2019
Il gioco del dare e del ricevere: il vero senso di andare in missione
Forse non tutti sanno che è possibile sentirsi a casa anche dall’altra parte del mondo. Forse non tutti sanno che è possibile avere due famiglie. O forse è una cosa che si sa, ma non sempre si conosce. Non sempre per lo meno lo si è sperimentato.È quello che è successo a me ritornando per la seconda volta a Salvador de Bahia.
Sono infatti stata ospite, insieme ad altri quattro ragazzi cremonesi, della parrocchia Gesù Cristo Resuscitato di Salvador Da Bahia, dove opera come missionario il sacerdote castelleonese don Emilio Bellani E ad accoglierci abbiamo trovato gli abbracci di tutti: dagli adulti ai bambini.
A Salvador non hanno bisogno di noi. Intendiamoci: la povertà è tangibile. E si parla di precarietà economica, scolastica, culturale e non solo. Ma si tratta pur sempre di una comunità con tante attività avviate – dal calcio per i bambini, alla scuola di musica, fino al balletto per bambine e ragazze -, con delle scuole e dei centri educativi che, anche con oggettive fatiche, lavorano.
E allora, perché andarci?
Perché oggi andare in missione non vuol dire andare a salvare il mondo. Non vuol dire insegnare qualcosa. Non vuol dire dimostrare di essere delle brave persone.
Andare in missione significa entrare in punta di piedi in un mondo totalmente altro, non solo con usi e costumi diversi, ma anche con codici di comportamento da imparare e rispettare. Significa dialogare alla pari. E imparare
Dire che si riceve molto di più di quello che si dà non è solo retorica. È profonda verità. Perché io posso aver “dato” la ricetta del salame al cioccolato durante il piccolo corso di cucina che abbiamo realizzato per le mamme, ma ho potuto sperimentare una genuinità delle relazioni e una semplicità della condivisione che troppo spesso qui sono macchiate da inutili sovrastrutture e banali pregiudizi.

 

ESPERIENZA ESTIVA 2018
«Bagunça e abraço (che tradotti in italiano significano confusione e abbraccio) sono le parole che meglio rispecchiano la situazione al nostro arrivo, la condizione in cui ci siamo trovati, l’aria che abbiamo respirato e le forti emozioni che ci hanno travolto».
Perché la favela gioca questo scherzo: non dà il tempo di capire, ci si ritrova nel mezzo della confusione, delle moltitudini di case una sopra l’altra, di gente, di strade, di vie e viuzze che sembrano tutte uguali ma che, in realtà, hanno storie di umanità ben precise.
E così si scopre che da soli per quelle vie non si può andare perché è troppo pericoloso, anche se la strada è la stessa che ogni giorno si fa per arrivare alla scuola dove si fa servizio; che è sempre bene non farsi notare per strada e che sull’autobus è meglio non parlare in italiano per non attirare troppo l’attenzione. «Ma si incontrano anche persone così gentili che per strada ti fermano e si preoccupano se si vede il cellulare che hai in tasca, che vedendoci per l’ennesima volta passare davanti la loro casa, ci sorride salutandoci con qualche parola in un italiano stentato o che sull’autobus si preoccupa di farci scendere alla fermata giusta evitando che ci perdessimo in questa megalopoli di più di 2 milioni e mezzo di abitanti».
Ecco bagunça è confusione, paura, disorientamento ma anche sorpresa, imprevisto e vicinanza… sì perché in questo oceano di umanità c’è posto per tutti e, nonostante il primo impatto possa sembrare molto duro, ciò che impressiona è il calore con il quale si viene accolti fin da subito.
Questa è la più grande contraddizione: ricevere così tanta umanità da sentirsi parte di una comunità, in un posto in cui ogni giorno si lotta aspramente per avere una vita dignitosa. Un’umanità semplice, fatta di sorrisi, canti e, soprattutto abbracci, abraços appunto. «Basti pensare a quelle famiglie che la domenica ci invitavano a pranzo e che facevano di tutto per farci sentire parte della loro famiglia o a quella signora che ci teneva a farci sapere che aveva imparato il canto italiano che facevamo sempre a messa»
Per quanto ci si possa preparare, ci si scontra con un forte senso di impotenza e inutilità: tante volte si devono cambiare o annullare i piani davanti ad imprevisti irrimediabili e spesso ci si domanda quale sia la reale utilità di una missione come questa, in mezzo a situazioni che non si possono cambiare o migliorare. «La risposta, come spesso avviene, è arrivata alla fine del nostro servizio quando tutte le persone che avevamo incontrato volevano assolutamente salutarci! Leggendo altre esperienze di giovani in terre di missione, c’è una frase che può riassumere bene ciò che abbiamo vissuto: “Dio non sceglie chi è capace ma rende capace chi sceglie”».
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