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Il “Cortile dei sogni” in zona IV: un’opportunità per ripensare insieme l’oratorio

Dopo un momento di convivialità nei locali dell’oratorio di San Daniele Po, ha preso il via l’incontro tra gli oratori della Zona pastorale 4 per il progetto il “Cortile dei sogni”, che guarda un ripensamento condiviso degli oratori nella prospettiva di un’apertura verso nuove possibili alleanze educative. Dopo la preghiera iniziale, don Paolo Arienti, incaricato diocesano per la pastorale giovanile, ha introdotto e guidato l’incontro.

Sono le parole che il vescovo Napolioni ha scritto nella sua lettera pastorale a ricordare l’importanza della «passione educativa», e la necessità che essa si «traduca – concretamente – nel rilancio degli oratori». Da qui ha preso avvio il discorso introduttivo di don Paolo Arienti.

Dopo i momenti di ascolto proposti in precedenza attraverso la compilazione di due schede, una sul “DNA dell’oratorio”, l’altra su “luci e ombre” per andare più in profondità rispetto ai vari indicatori in cui si compone l’oratorio (rapporto con adolescenti, famiglie, stranieri, istituzioni civili), è stata la volta della terza scheda, che chiedeva alle parrocchie di raccontarsi, portando magari un oggetto evocativo della propria esperienza, per poi passare ad una fase in cui mettersi a dialogare più specificamente sulla propria realtà zonale.

La Zona 4, notava del resto don Paolo Arienti, è quella in cui alcuni esperimenti innovativi sono già in corso, come l’inserimento di alcune figure professionali all’interno degli oratori, la mistagogia, il gruppo giovani e la commissione zonale. L’obiettivo è stato dunque quello di ragionare un po’ sulle “alleanze”, da individuare e consolidare.

Diversi rappresentanti delle parrocchie e delle unità pastorali impegnati nella pastorale giovanile hanno preso dunque la parola per descrivere le singole realtà e cercare di delineare le possibili alleanze educative a livello zonale. Nonostante le criticità condivise, soprattutto nella frequenza  feriale degli oratori e nell’impegno necessario per la costruzione delle unità pastorali (che –  come notava don Paolo – implica comunque l’esistenza di una struttura già nascente di pensiero condiviso) la quasi totalità degli interventi ha voluto sottolineare per lo più gli aspetti positivi su cui è possibile costruire il ripensamento concreto degli oratori.

Una tavoletta di legno con dei chiodi sparsi uniti da un groviglio di fili è l’oggetto rappresentativo portato da Pasquale, educatore operante nell’unità pastorale di Gabbioneta, Binanuova, Vescovato e Ca’ de’ Stefani. «L’idea è quella di creare delle reti con le associazioni e con il territorio, con le istituzioni e reti soprattutto nel coinvolgimento maggiore dei più giovani», laddove si rileva un vero e proprio “scollamento” generazionale.

Un ramo fiorito di mandorlo, per indicare la fragilità ma anche la voglia di rivivere, e l’immagine di don Bosco che rievoca l’importanza della presenza del sacerdote in oratorio, i due oggetti presentati invece dall’oratorio della nascente unità pastorale di Cella Dati, Derovere, Longardore, Pugnolo, San Salvatore, Sospiro, Tidolo.

Tutte le proposte sono sembrate convergere sulla necessità di creare percorsi e risorse comuni: la proposta di Pasquale è quella di organizzare degli incontri zonali sfruttando le reti già esistenti tra gli adolescenti dei vari oratori e coinvolgendo le figure educative, i collaboratori della F.o.Cr. e il gruppo giovani già esistenti in Zona 4. L’idea condivisa è in particolare quella di accompagnare i ragazzi, già così ampiamente coinvolti durante l’esperienza estiva del Grest, anche nel corso di incontri invernali in cui creare reti di relazioni e dare rilievo alle esigenze dei ragazzi stessi.

In chiusura don Paolo Arienti, dopo aver ricordato come il progressivo cambiamento dei nostri oratori può essere emblematicamente sintetizzato nelle espressioni degli ultimi tre vescovi (il vescovo Assi parlava di “palestra”, Lafranconi partiva dalla domanda “che cercate?”, mentre Napolioni ha rilanciato con “Gesù per le strade”), ha infine ricordato l’incontro conclusivo del 17 aprile, un’opportunità di condivisione e crescita sul tema del ripensamento dell’oratorio a livello diocesano.

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Una rete di carità tra lungo le strade della diocesi

Una carità che da e per tutti. E’ questo il senso dell’incontro tenutosi nella mattinata di domenica 10 novembre presso l’oratorio di Sospiro, nell’ambito della Settimana Diocesana della Carità promossa dalla Caritas cremonese. Sono intervenuti don Pierluigi Codazzi – nuovo direttore di Caritas -, il responsabile dell’area pastorale “Nel mondo con lo stile del servizio” don Maurizio Lucini e il diacono Marco Ruggeri.

È stata un’occasione di confronto aperto, di dialogo e di testimonianza con molti parrocchiani e operatori della carità della zona pastorale IV, presenti per discutere delle sfide “del fare del bene” oggi.

Ci troviamo infatti in un contesto sempre mutevole e dove “fare rete” diventa più che mai necessario per vincere i grandi mali che affliggono l’uomo contemporaneo: la solitudine e la povertà in primis.

Filo conduttore è stato un brano tratto dal Salmo 9: “La speranza dei poveri non sarà mai delusa”. Le parole del Salmo – riprese da Papa Francesco nel suo messaggio per la Giornata mondiale dei poveri (che si celebra domenica 17 novembre)  – manifestano del resto una incredibile attualità. Esprimono una verità profonda che la fede riesce a imprimere soprattutto nel cuore dei più poveri: è possibile ed è necessario restituire la speranza perduta dinanzi alle ingiustizie, alle sofferenze e precarietà della vita. L’impegno di tutti – e l’impegno di Caritas va in questa direzione – sarà dunque quello di lavorare sempre più a stretto contatto con le numerose realtà caritative (associazioni, gruppi, movimenti) presenti sul territorio cremonese al fine di creare un’educazione alla carità che sia condivisa e che possa allargarsi, per poter rispondere in maniera convincente ed esaustiva alle emergenze quotidiane.

Ci sono molti casi di indigenza, malattia, solitudine ma anche la delicata situazione dei migranti o di madri rimaste sole in giovane età a cui far fronte. Uniti, perché – come diceva don Primo Mazzolari – “la carità è la poesia del Cielo portata sulla terra”.

 

 




La Giornata del Creato della Zona 4 celebrata alla Cascina San Marco di Tidolo

L’amore per il Creato e la sua cura sono al centro dell’esperienza umana e cristiana vissuta a Cascina San Marco di Tidolo, frazione di Sospiro, dove una cinquantina di ragazzi con disabilità intellettiva ed autismo coltivano, raccolgono e trasformano i frutti rossi in squisite confetture biologiche.

Una straordinaria realtà di inclusione sociale, lavorativa e di ecologia “integrale” che diventa autentica celebrazione del Creato attraverso il lavoro dell’uomo, il dono della terra e dei suoi frutti: more e lamponi, mirtilli e ribes.

È a partire da questa realtà che la Zona pastorale 4 ha voluto festeggiare la 14^ Giornata Nazionale per la Custodia del Creato, invitando a conoscere l’attività svolta dall’impresa agricola-sociale Cascina San Marco, un progetto nato nel 2018 da Fondazione Istituto Ospedaliero di Sospiro con la collaborazione e il sostegno di 23 imprese del territorio.

Il pomeriggio si è aperto con il benvenuto del Presidente di Cascina San Marco Simone Zani, il quale ha precisato come «questo posto, immerso nella campagna cremonese, rappresenti un nuovo progetto di vita per i giovani e adulti con disabilità chiamati ad uscire dal contesto di vita residenziale per sperimentare un contesto relazionale e lavorativo a contatto con la natura».

Il parroco di Sospiro don Federico Celini ha poi introdotto una riflessione sulla Enciclica Laudato sì di Papa Francesco, ricordando che «abbiamo ricevuto un mandato biblico, quello di custodire il Creato, dono prezioso, dunque è necessario sviluppare una coscienza ecologica reale e vera, come quella che si sperimenta a Cascina San Marco, luogo di incontro, di condivisione, di azione e di produzione, di cura delle persone in condizione di fragilità».

Rosolino Fiorini, presidente del gruppo ecologico El Muroòn di Sospiro, è intervenuto per spiegare l’attività a supporto degli operatori di Cascina San Marco nella fase della raccolta dei piccoli frutti, illustrando in generale tutto il servizio svolto a favore dell’ambiente e della comunità dal 1992.

Sante Mussetola, responsabile dell’Ufficio diocesano per la Pastorale sociale e del lavoro, ha infine sottolineato che «l’attuale crisi ecologica è un appello alla conversione interiore, pertanto siamo chiamati a vivere la dimensione cristiana anche in rapporto con l’ambiente secondo una ecologia della relazione e ragionando sul “noi”».

L’iniziativa si è conclusa con la degustazione delle marmellate e la visita guidata del frutteto e del laboratorio di produzione.

 




Giornata per la Custodia del Creato, il 15 settembre evento a Tidolo per la Zona pastorale 4

Tra le iniziative zonali promosse nel contesto della 14ª Giornata nazionale per la Custodia del Creato, dal titolo “Quante sono le tue opere, Signore” (Sal. 104, 24) Coltivare la biodiversità, sono due gli eventi in programma domenica 15 settembre per le Zone pastorali 4 e 5, rispettivamente a Tidolo (Sospiro – CR) e Tezzoglio (Bozzolo – MN). Ultimo appuntamento il 29 settembre ad Agnadello per la Zona 1.

 

La proposta a Tidolo per la Zona 4

Domenica 15 settembre, alle 15.30 presso la Cascina San Marco di Tidolo, frazione di Sospiro, si terrà un pomeriggio di festa e riflessione aperta a tutti, nel solco della “Giornata del Creato” fortemente voluta da papa Francesco.

Ad aprire l’incontro sarà un breve momento di preghiera guidato da don Federico Celini (parroco di Sospiro) e don Maurizio Lucini (responsabile dell’area pastorale “Nel mondo con lo stile del servizio”.

A caratterizzare la giornata anche la partecipazione dei ragazzi di Fondazione Sospiro, che in cascina coltivano un frutteto e producono e confezionano ottime marmellate. Tra le testimonianze che saranno proposte ci sarà, così, proprio quella di Simone Zani, responsabile del progetto di impresa agricola e sociale nata in seno alla Fondazione, che vede impegnarsi nella coltivazione e nella lavorazione di frutta ogni giorno una cinquantina fra ragazzi e operatori.

Interverranno poi Sante Mussetola (incaricato diocesano per la Pastorale sociale e del lavoro), Paolo Segalla (dottore agronomo) e Lino Fiorini (presidente del gruppo ecologico “El Muròon” di Sospiro). Quest’ultima onlus si occupa prevalentemente di difesa ambientale attraverso una grande varietà di azioni per il recupero delle zone degradate, come la bonifica e piantumazione con arbusti autoctoni e il loro mantenimento. Si occupa inoltre di educazione ambientale nelle scuole e di azioni culturali di sensibilizzazione alla tematica ambientale con il coinvolgimento della popolazione locale e di persone diversamente abili della Fondazione Sospiro.

Sarà dunque un ricco pomeriggio quello che attende chi vorrà partecipare. E che terminerà in maniera ancora più ricca e gustosa, grazie a una merenda offerta dai ragazzi a base di pane e marmellata. Sarà inoltre possibile acquistare i prodotti della cascina per poter godere anche a casa dei gusti straordinari che il Creato può offrire a tutti noi.

 

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A San Giovanni in croce la Festa in piazza per i Grest della Zona 4 (photogallery)

Giovedì 27 giugno dalle 12 alle 16 gli oratori di Sospiro, Vescovato, Pieve San Giacomo, San Daniele Po, Torre de’ Picenardi, Piadena, Scandolara Ravara con Cingia de’ Botti e Motta Baluffi, si sono dati appuntamento presso la Chiesa Parrocchiale di San Giovanni Battista, a San Giovanni in Croce, per las festa in piazza dei Grest della Zona 4 della Diocesi.

La giornata è stata aperta da un momento di preghiera, condotto da don Paolo Arienti, incaricato diocesano per la Pastorale giovanile e presidente della Federazione Oratori Cremonesi, cui ha fatto seguito il saluto di don Davide Ferretti, parroco di Scandolara Ravara e Motta Baluffi, e vicario zonale della Zona 4, che dopo l’estate partirà per un’esperienza missionaria in Brasile.

Di seguito, il grande gruppo, composto da diverse centinaia di bambini accompagnati dai loro educatori, si è diretto al parco di Villa Medici del Vascello, dove è rimasto l’intero pomeriggio, tra giochi e animazione.

Diverse le attività da svolgere per raccogliere la tanto agognata moneta d’oro, che permettesse agli educatori di proseguire nel percorso della “Festa in piazza” e raggiungere Pinocchio, per vincere la competizione tra oratori. Dal Tiro alla fune, a Scala e serpente, da Twister a Dama, da Tris a Forza 4. Anche gli sport sono stati momenti coinvolgenti per tutte le età: basket, calcio, pallavolo, hockey su prato e da ultimo un originalissimo calcio dentro palle gonfiabili. Quest’anno il titolo se l’è aggiudicato l’oratorio di Vescovato.

Da segnalare anche la presenza di Padania Acque, che ha fornito acqua fresca gratuitamente a tutti i presenti in bicchieri riciclabili. Anche questo è un segno dei tempi. Dove c’è rispetto per le persone c’è rispetto per l’ambiente.

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Un prete dietro le sbarre, la testimonianza di don Marco Pozza a Sospiro

Don Marco non è un prete convenzionale. E la sua parrocchia non è da meno. Conta 850 anime, racchiuse in poche centinaia di metri quadrati fatti di porte blindate, chiavistelli, sbarre ma anche di orto, cucina, libreria. E’ il carcere  “Due Palazzi” di Padova, costruito negli anni Ottanta e oggi uno dei più conosciuti in Italia.

Qui don Marco Pozza vive da oltre dieci anni, “sperimentando l’inferno, quello vero”.  Lo ha raccontato ieri sera a Sospiro, in una chiesa gremita e in attento ascolto. Due ore di racconto serrato di sé e dei suoi amici carcerati, “quelli che un tempo io, cresciuto nel Nord Italia dove si lavora e non si guarda di buon occhio chi sgarra, definivo bestie. Ma un giorno Dio mi ha teso un agguato. Siccome non riusciva a fare di me un ragazzo umile, mi ha umiliato. Per amore, mi ha umiliato”. Quella mattina il sacerdote veneto, fresco di nomina, riceve la chiamata del suo amico don Giovanni – allora cappellano nella casa circondariale di Regina Coeli. Gli chiede di poter celebrare messa al posto suo, ché deve seguire Benedetto XVI in viaggio ed è impossibilitato. “Entrai in quel carcere e quella che per me è stata una rivoluzione  è diventata una rivelazione, perché appena ho iniziato a dire messa ho incrociato gli sguardi di uomini che dalle braccia del carcere guardavano fissi al Cristo. E mi sono vergognato di me, di quando  li ritenevo bestie”. Uscito da lì, chiede ed ottiene dal vescovo di Padova di poter proseguire la sua vita di sacerdote al fianco dei carcerati.

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“Per diventare veramente uomo, dovevo avere il coraggio di ammettere di aver sbagliato bersaglio, tornare indietro e imparare l’obbedienza dentro la sofferenza. Oggi sono parroco di 850 uomini che nella vita hanno fallito il bersaglio esattamente come me. E che scontano la loro pena fino in fondo, con responsabilità. Perché la responsabilità è l’altra faccia della libertà”. Don Marco racconta di aver incontrato Dio in questi volti: i volti di Antonio, Jacopo, Filippo, detenuti che hanno commesso reati atroci eppure -ha ricordato citando San Giovanni Bosco – “anche nel peggior delinquente c’è un punto di luce”. Racconta di loro ripercorrendo insieme ai presenti la parabola del figliol prodigo, soffermandosi sul momento in cui il figlio che se ne era andato (“era andato fuori, fuori di sé”), torna (cioè “torna in sé, torna alla casa di suo padre”).  Quel giovane – esattamente come ognuno dei suoi detenuti – aveva perso la bussola, aveva toccato il fondo e poi – pieno di vergogna – era tornato a casa. E suo padre vedendolo si commuove, gli corre incontro, gli getta le braccia al collo e fa ammazzare il vitello grasso per festeggiare il suo ragazzo ritrovato. “Abbiamo tutti bisogno di qualcuno che ci guardi, di uno sguardo che ci faccia sentire vivi, unici”.

Poi don Marco si sofferma sulla parola vergogna (perché “la vergogna porta alla misericordia e papa Francesco ci dice sempre che la vergogna è la grazia più grande da chiedere a Dio) e sul peccato più grande di tutti: il non saper gioire per gli altri come dimostra il fratello del figliol prodigo, “uno che non aveva mai sbagliato nella vita ma che non riesce a provare compassione, gioia ed è in ultima analisi triste”. E’ un invito alla riflessione per tutti. “Ho capito cosa intendeva papa Francesco quando parlava della Chiesa come un ospedale da campo. Perché quando sei in un ospedale da campo, in guerra, e arriva un ferito tu non stai a chiedergli conto di quanto alto ha il colesterolo o dei suoi valori del sangue: gli salvi la vita. Poi farai tutti gli esami del caso. Per farlo ci vuole misericordia e questo vale per tutti ovunque. Anche in carcere, perché senza misericordia non c’è vera giustizia”.

La serata si chiude con il commovente video di Antonio, oggi sacrestano del carcere, un passato da mafioso. Nato a Scampia in una famiglia perbene, studia poco e lavora molto come fiorista nel negozio della mamma. Ma quando la donna muore giovane, il 18enne vive un momento buio. Il padre poco dopo si risposa e non basta l’affetto suo e dei fratelli a sistemare le cose. “Quando mio padre si mise con Maria, mi sembrò come se tradisse mia madre. Me ne andai di casa. Non mi mancava nulla eppure il demonio mi ha fregato: io ci sono caduto”.  Con la giustizia Antonio ha trentuno anni da scontare. In quanto ad onestà, è in fase di perpetua accelerazione. Quando parla, chiude gli occhi: dice di vederci meglio e continua a raccontare in napoletano quale sia il suo inferno. “È così: il male ti tira. È un buco che non sbuchi. Ti ammazzano. Non so come, mi sono rovinato la vita. Facendo il fioraio potevo avere tutto e invece ho scelto altro. Ma non era vita. Capisci perché si chiama malavita?”. Infiniti cambi di residenza dietro le sbarre. Da Poggioreale a Secondigliano, giusto davanti casa. Poi a Padova, sua attuale residenza. Nato giardiniere, nel carcere di Padova è l’addetto alle verdure. Di domenica, poi, arrotonda lo stipendio che non c’è: fa il chierichetto a don Marco. Che confessa: “Adesso non sarei più capace di celebrare messa senza di lui. Antonio, il giardiniere, è il mio piccolo diavolo custode. Sbagliare è umano. Ammetterlo è sovrumano”.




A Cicognolo la Veglia per la vita per la Zona 4

Luce, segno della vita. Quattro candele, accese e consegnate dai bambini, hanno simbolicamente illuminato la Veglia di preghiera per la vita che si è svolta, per la zona 4, nel nuovo salone parrocchiale di Cicognolo.

La Veglia, accompagnata dai canti eseguiti dalla Schola cantorum di Motta Baluffi e Scandolara Ravara e scandita dalla lettura della Parola di Dio e dalle preghiere, è stata un vero e proprio momento di meditazione e di invocazione della presenza di Dio, fonte e “padrone” della vita, il solo e unico che la dona.

Il vicario zonale don Davide Ferretti ha sottolineato l’importanza di «riflettere sulla sacralità della vita umana, da tutelare dal principio fino alla sua naturale conclusione, ma anche la necessità da parte della comunità cristiana di darne testimonianza. Ringraziare il Signore per le creature che popolano la terra e avere la testardaggine di affermare che la vita è nelle mani di Dio, non dell’uomo. Non bisogna rinunciare a Dio né metterlo da parte perché ciò significa togliere la vita che è “sentiero di amore”, un sentimento da recuperare e rivitalizzare senza condizioni e senza distinzioni».

Durante la celebrazione è stata data lettura di due significative testimonianze. Il medico e primario ospedaliero Mario Melazzini, ammalato di Sla e presidente dell’associazione italiana dei pazienti affetti da questa malattia, ha parlato di Piergiorgio Welby e del suo “diritto” di interrompere la vita.

Il dottor Melazzini ha riportato la sua esperienza personale, ammettendo di aver pensato di ricorrere all’eutanasia perché considerava soltanto se stesso, senza tenere conto dei sentimenti e delle esigenze dei familiari. «La richiesta di eutanasia – ha dichiarato – ed eventualmente la scelta della società di cedere su questo fronte, è puro egoismo. È la risposta più facile e sbagliata perché i malati vanno aiutati a vivere e questo è possibile solo attraverso un’assistenza adeguata e dignitosa. È un’accoglienza del malato e della sua sofferenza che alla società inevitabilmente “costa”.

L’impegno di chi lavora per il diritto alla vita diventa allora quello di fare del tutto perché quel costo non diventi mai un “peso” e che la società, nel suo insieme, non dimentichi mai che la vita è un dono e che vale la pena di viverlo fino in fondo».