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Franco Mugerli nuovo presidente dell’Associazione Corallo

Si è riunito il 22 luglio il Consiglio direttivo dell’Associazione Corallo – che rappresenta 216 emittenti (173 radio e 43 televisioni) e di cui anche TeleRadio Cremona Cittanova fa parte – per la nomina del nuovo presidente, a seguito della recente scomparsa di Luigi Bardelli. Al Consiglio ha partecipato anche il Segretario generale della CEI, l’arcivescovo di Cagliari mons. Giuseppe Baturi. Il Consiglio ha, quindi, nominato come presidente  Franco Mugerli, al quale vanno le più vive congratulazioni di Aeranti-Corallo.

Franco Mugerli, giornalista, ha operato nel settore radiotelevisivo iniziando a dirigere nel 1976 una radio locale in provincia di Milano dove è nato e abita con la famiglia. Nel CORALLO dalla fondazione nel 1981, è stato direttore, poi presidente (1986 – 1994).

È stato direttore dell’agenzia giornalistica radiotelevisiva News Press, dirigente dell’emittente Tv2000 e del circuito radiofonico InBlu, direttore di TER – Tavolo editori radiofonici (indagine sull’ascolto radiofonico in Italia), presidente di COPERCOM – Coordinamento delle Associazioni per la Comunicazione, presidente del Comitato Media e Minori presso il Ministero dello Sviluppo Economico, co-presidente della CERC – Conferenza Europea delle Radio Cristiane. Ha, inoltre, collaborato con riviste di settore; è stato membro di commissioni presso il Ministero PP.TT., la Presidenza del Consiglio dei Ministri Servizi Editoria, la Conferenza Episcopale Italiana.

Franco Mugerli ha ringraziato mons. Giuseppe Baturi e il Consiglio direttivo per la fiducia accordata e, ricordando l’amico Luigi Bardelli, ha richiamato il mandato affidato da Papa Francesco a Corallo e ad altri media ecclesiali nell’udienza del 23 novembre 2023:

«Il vostro radicamento capillare testimonia il desiderio di raggiungere le persone con attenzione e vicinanza, con umanità…  La comunicazione è mettere in comune, tessere trame di comunione, creare ponti senza alzare i muri… Comunicare è formare. Comunicare è formare la società».

Mons. Giuseppe Baturi, ha sottolineato l’importanza e il valore dell’informazione che «da sempre dà voce alle comunità dei diversi territori, mostrandone la bellezza e la vitalità. La dimensione locale favorisce infatti quella prossimità, frutto di conoscenza intima e di un’esperienza condivisa, che permette di raccontare fatti e storie, costruendo legami e delineando orizzonti di senso».

Il Consiglio direttivo dell’Associazione Corallo risulta ora così composto: Franco Mugerli (presidente); Alessia Caricato (direttore); Massimo Porfiri (tesoriere); consiglieri: Francesco Cavalli, Vincenzo Corrado, Sabina Ferioli, Italo Lunghi, Vincenzo Morgante e Daniele Morini. Per il Collegio dei revisori dei conti Francesco De Strobel (presidente), assieme a padre Salvatore Giardina e padre Francesco Giuseppe Mazzotta.

L’Associazione Corallo, insieme ad Aaeranti, costituisce Aeranti-Corallo.




Autonomia differenziata e referendum, il 26 luglio incontro alle ACLI

Sull’onda del neo-costituito coordinamento provinciale, la mobilitazione contro l’autonomia differenziata, che prevede in prima battuta la raccolta firme per il referendum abrogativo del decreto Calderoli, è attiva anche sul territorio cremonese. Sindacati, forze politiche, associazioni e liberi cittadini sono al lavoro per dare informazione sulle ricadute per il futuro del Paese.

«Non tutti sanno purtroppo – evidenzia il Coordinamento provinciale – che cosa sia e che cosa comporterà l’autonomia differenziata, un po’ perché poco se ne parla (se non fra gli addetti ai lavori), un po’ perché da tempo il metodo di informazione del singolo non è sempre garantito dai media».

In questo contesto sono in programma due appuntamenti di sensibilizzazione sul territorio con l’intervento di Antonio Russo, vice presidente delle Acli nazionali con delega alla coesione territoriale e membro del Comitato direttivo della campagna referendaria. Nella mattinata di venerdì 26 luglio sarà a Cremona, presso l’auditorium della Cattadella delle Acli (ingresso da piazzale Luzzara): appuntamento alle ore 10.30 introdotto dal presidente provinciale Bruno Tagliati. Ulteriore appuntamento nel pomeriggio di giovedì 25 luglio alle ore 18 presso Arci Bassa di Gussola, in piazza Comaschi.

Seguiranno altre iniziative volte alla raccolta firme e all’informazione.




Apg23: “Rieduchiamo i carcerati curando le ferite e attraverso il servizio ai più deboli”

Rieducare il detenuto, reinserirlo nella società e abbattere anche il tasso di recidiva. È l’esperienza delle Comunità educanti con i carcerati (Cec), progetto promosso dalla Comunità Papa Giovanni XXIII (Apg23) che ha portato nel tempo alla realizzazione di 10 strutture per l’accoglienza di carcerati che scontano la pena, dove i detenuti sono rieducati attraverso esperienze di servizio ai più deboli nelle cooperative dell’associazione. Per questo la Comunità, attraverso il presidente Matteo Fadda, ha salutato molto positivamente il decreto carcere, recentemente approvato dal Governo. Dell’esperienza Comunità educanti con i carcerati parliamo con Giorgio Pieri, biologo, erborista ed educatore professionale, responsabile del progetto per la Comunità Papa Giovanni XXIII.

Quando è nata la prima Casa? Dove si trovano le Cec?

«Le Comunità sono dieci, la prima si chiama Casa “Madre del Perdono” e l’abbiamo aperta nel 2004 a Montefiore, nel Riminese, poi ne abbiamo aperto una seconda in Toscana: ora ne abbiamo tre nel Riminese, una a Forlì, una in Toscana, una a Cuneo, una a Termoli, due a Vasto e una a Piacenza».

Come funzionano le Cec?

«Nella Comunità il metodo si basa sulla relazione. Quello che abbiamo capito è che queste persone, prima di fare del male, hanno ricevuto il male, sono persone ferite, fragili, e sul piano relazionale non hanno avuto esempi positivi o hanno passati di violenza e di estrema povertà materiale e culturale, deprivate sul piano educativo in tenera età. Il nostro impegno principale è lavorare sulla relazione e sulle ferite.Un po’ come l’altalena. Innanzitutto, guardiamo il passato della persona, guardiamo la ferita, cerchiamo di rendere consapevole di queste ferite. Ad esempio, c’era un ragazzo che picchiava la moglie, alla fine si è reso conto che sottovalutava il fatto che il padre a sua volta picchiasse la madre e bevesse: pur odiando il padre, alla fine l’unico linguaggio che conosceva era quello della violenza. È stata un’elaborazione non immediata e non facile. Il ragazzo diceva che era una fortuna l’essere entrato in Comunità perché covava solo odio verso la moglie che l’aveva denunciato, mentre in Comunità ha capito che il problema era lui e non la moglie. In Comunità ci sono regole e vengono fuori i pregi e i difetti delle persone. Noi dobbiamo scoprire i talenti dei “recuperandi”. Sui difetti si deve lavorare, bisogna anche aiutarli a rielaborare la rabbia che covano, saperla contenere, saperla indirizzare».

Si chiamano “Comunità educanti con i carcerati”: chi educa?

«Le Comunità sono fatte da operatori come me, ma poi ci sono tanti volontari che vengono due o tre ore alla settimana. Il principio è che il territorio deve farsi carico di queste case.

Diceva don Oreste Benzi: “Nello sbaglio di uno c’è lo sbaglio di tutti, per recuperare una persona c’è bisogno del coinvolgimento di tutti”.

Ci siamo dati come punto di lavorare sul detenuto non solo noi operatori, ma anche i volontari che vengono a visitare queste case e che solitamente vivono un rapporto uno a uno: li accompagnano dall’inizio della pena sino alla fine. In colloqui che durano da una quarantina di minuti fino a un’ora i volontari cercano di scavare nel loro vissuto, quello che vivono in comunità, cosa sta facendo bene e cosa no, come questo è riferito anche a tutta l’esperienza passata. Il recuperando si sente accompagnato, sente che il suo futuro non è uguale al suo passato, che ha la possibilità di sperare in qualcosa di diverso, che ha persone che gli vogliono bene. Pian piano si calma e accetta di guardarsi dentro, questo è l’aspetto più bello della Comunità: la persona accetta di fare questo lavoro e si dà il tempo per farlo. Quando si è maturato questo percorso, come l’altalena si esce dalla Comunità per andare verso l’esterno: inviamo le persone al lavoro e le accompagniamo dando un appartamento, nel frattempo continuano la relazione con noi se vogliono».

Com’è una giornata tipo in Comunità?

«La sveglia alle 7- 7,30, poi la colazione, si prosegue con le pulizie, poi c’è un momento di spiritualità: noi essendo cristiani partiamo dalla lettura della Parola di Dio.Detenuti per reati gravi come l’omicidio o persone che hanno subito violenze di tutti i generi hanno una domanda di senso molto alta e questa componente spirituale è molto importante. Anche se ci sono molti musulmani – la metà delle persone che vengono da noi sono straniere e quindi sono di religioni diverse – il bisogno di spiritualità ci accomuna, non ci separa, questa è un’esperienza molto bella.Noi facciamo anche lavori in casa: assemblaggio oppure orto, allevamento di animali. Un appuntamento fisso la sera è il resoconto scritto di sentimenti ed emozioni che hanno dominato la giornata. Ci sono poi tre incontri a settimana tutti insieme con o senza gli operatori in cui ci si racconta come sta andando il percorso. L’aspetto bello è che diventiamo capaci di farci guardare e di guardare gli altri, cercando di rompere i meccanismi di omertà, gli errori che si ripetono. Questo lavoro è supportato anche, quando c’è bisogno, dalla presenza di psicologi e psichiatri, ma il lavoro vero è quello della Comunità, dove la convivenza stretta tira fuori il bello e il brutto che c’è dentro di noi su cui poter lavorare.Questo tipo di lavoro non si può fare in carcere, perché il sistema carcere è di per sé violento per cui la persona non potrà fare mai una vera revisione di vita in quanto si trova a doversi difendere.C’è gente che ha commesso un reato e dentro dovrebbe elaborare un senso di colpa e invece elabora un sentimento di vittimismo perché si deve difendere dal sistema che è fatto di violenza agita dagli altri detenuti, dalle guardie e anche da una buona dose di rabbia che nasce dalla propria storia. Quindi, non si riesce a fare questo lavoro di introspezione e di rielaborazione del proprio vissuto. Ma se non si fa questo non si può parlare di percorso educativo».

Ci sono dei principi che ispirano il vostro lavoro con i detenuti?

«Innanzitutto, come dicevo prima, la presenza della comunità esterna, i volontari, che noi formiamo, facciamo un corso di formazione ogni due mesi, quindi in una casa di 15 persone ci sono 10 volontari formati. Poi mettiamo alcuni detenuti al massimo della responsabilità, cioè gestiscono le mansioni della casa ma anche la responsabilità sul piano educativo.Abbiamo un organo, il Consiglio della sincerità, della solidarietà e della sicurezza, con un gruppo di due o tre detenuti che collaborano con gli operatori nella gestione della casa.Un altro punto importante è la famiglia, di origine e quella attuale, che va coinvolta e diventa una risorsa nel percorso. Altro punto è il lavoro, che all’inizio non è remunerato. Noi siamo a costo zero per lo Stato al momento. Sono vent’anni che abbiamo aperto la prima casa e non abbiamo mai avuto finanziamenti se non una parentesi di tre anni come Casa Madre del perdono per 10 persone dalla regione Emilia Romagna. Il lavoro diventa un’occasione per insegnare l’atteggiamento che bisogna avere. Occorre creare le condizioni affinché anche il lavoro diventi un elemento educativo. Di per sé non lo è, ma lo diventa in un contesto educativo. Il lavoro va accompagnato fino all’autonomia. Non dobbiamo illuderci che un lavoro risolva il problema del detenuto.

Il problema del detenuto è l’elaborazione del proprio vissuto;

il lavoro per campare è necessario, ma viene dopo. La Comunità Papa Giovanni ha una grande forza: oltre alle Cec, abbiamo comunità per tossicodipendenti, per adulti, con disagio fisico, psichico, case famiglia, abbiamo oltre 500 strutture, quindi abbiamo una rete, per cui dopo la Cec possiamo mandare le persone in casa famiglia e poi da lì vanno a lavorare».

Chi sta in Comunità?

«Per la precarietà con cui abbiamo dovuto lavorare abbiamo molto valorizzato la disponibilità di ex carcerati che hanno deciso di dare la vita per questo progetto. Ogni casa è garantita dalla presenza alcuni membri della Comunità, poi ci sino alcuni ex detenuti di supporto che sono di grande valore. Se c’è la possibilità grazie al decreto carcere di avere fondi e di assumere educatori professionali, sarà la prima cosa che faremo. Da uno studio presentato al Senato nel 2014, ma ancora valido, emerge che se ci fosse una retta di 40 euro al giorno ci sarebbero disponibili 10mila posti in Comunità perché ci sarebbero educatori, figure professionali che pagate il giusto sarebbero disponibili a vivere questa esperienza che è bella e dura al tempo stesso, perché abbiamo sempre a che fare con il male. Eil male è un grande mistero e lavorare sul male e sulle ferite delle persone è sempre cosa delicata e nessuno può dire si fa così ed è certo così, è sempre una ricerca continua per fare bene, sempre meglio».

Prima diceva dell’importanza dei momenti di spiritualità…

«È importante accendere e dare valore alla propria spiritualità. Ho chiesto a un ragazzo: “Cos’è la cosa più bella di te?”. Mi ha risposto: “La mia fragilità”. Questo è uno spacciatore che ha smerciato droga senza essere preso per 24 anni, non ne poteva più di quella vita e dice grazie a Dio di essere stato arrestato: da noi, dove ci sono anche disabili, si è trovato ad accudire un disabile giorno e notte e ha scoperto di avere una grande sensibilità alla fragilità degli altri. Questo talento che ha scoperto di avere nasce dalle sue fragilità, suo padre ad esempio beveva.Questa come le altre storie mi dicono che la strada è giusta, forse è l’unica strada».

Il presidente dell’Apg23 ha mostrato soddisfazione per il decreto carcere…

«Siamo stati noi a proporre un Albo di Comunità al sottosegretario Andrea Ostellari in un incontro con lui e con Giovanni Russo, il capo del Dap e ci siamo sentiti dire una frase confortante: “Questa volta non siete voi a chiedere aiuto a noi, ma siamo noi a chiedere aiuto a voi”. Vuol dire che hanno riconosciuto che le Comunità possono diventare se non per tutti ma per tanti – io dico anche per oltre 20mila persone – luoghi di espiazione della pena alternativi al carcere.Io sogno che un giorno arriveremo a guardare le colate di cemento e ferro come qualcosa di preistorico perché saranno sostituite da qualcosa di molto più bello che sono le Comunità».

Quante persone avete accolto in questi anni? Con le Cec si abbassa la recidiva?

«In tutti questi anni abbiamo accolto oltre 4mila persone, soltanto qui nel Riminese ci avviciniamo alle mille, attualmente ci sono 280/290 persone tra detenuti ed ex detenuti che dormono nelle nostre case.Da noi la recidiva si abbassa al 12-15%, rispetto al 70% dichiarato dallo Stato italiano, ma che in realtà è più alta, perché il 70% si riferisce solo a quelli che rientrano in carcere entro i cinque anni, ma ci sono anche quelli che commettono reati senza essere presi».

Fate incontrare vittime e autori di reati, secondo il paradigma della giustizia riparativa?

«La nostra è “giustizia educativa”.

Grazie alle Comunità passiamo da una giustizia retributiva che è quella delle carceri, vendicativa in alcuni casi, a una giustizia educativa. La giustizia riparativa credo, per come è stata concepita, è molto teorica e molto di élite, perché di fatto l’incontro vittima e carnefice non è sempre facile. Noi, ad esempio, facciamo venire la mamma di un tossicodipendente a parlare del proprio figlio e di quello che vive un genitore quando ha un figlio per strada oppure facciamo incontri con le comunità terapeutiche dove mettiamo a confronto spacciatori e consumatori, anche con qualche partita di calcio tra la squadra degli spacciatori contro quella dei tossicodipendenti. Credo che questi incontri vadano incentivati per dare valore alla vittima e far riconoscere al carnefice che, oltre ai suoi diritti, ci sono quelli della vittima perché il progetto Cec tiene conto dei diritti della vittima, il diritto di riscatto del reo e il diritto della società che aspira a una giustizia piena. Nel libro “Carcere. L’alternativa possibile” spiego bene tutto il mondo Cec, nato dall’esperienza brasiliana Apac, con le cosiddette “carceri senza guardie”».

Gigliola Alfaro (AgenSir)




#1euroafamiglia, bilancio di una rete di solidarietà e sussidiarietà per il bene di tutti

#1euroafamiglia è stata la campagna di raccolta di micro-donazioni promossa dalla Fondazione Forum delle associazioni familiari, una realtà nata dalla rete del Forum delle associazioni familiari, per aiutare le famiglie in difficoltà economica temporanea, nel periodo del Covid. Attraverso un impegno minimo di 1 euro, si sono aiutate tante famiglie che hanno avuto problemi a pagare la rata del mutuo o le bollette, dando fondo ai risparmi accumulati. A conclusione del progetto, parliamo con la vicepresidente del Forum nazionale delle associazioni familiari, Cristina Riccardi, per un bilancio dell’iniziativa.

Cristina Riccardi (Foto: Sir)

Si è conclusa l’esperienza di “1 euro a famiglia”: quanto è durata complessivamente?

Il progetto è iniziato nel febbraio de 2021 in piena emergenza su iniziativa del Forum delle associazioni familiari. Il lockdown aveva costretto molti ad interrompere le attività lavorative, mentre per altri c’era stata un’intensificazione dell’impegno dovuto proprio alla pandemia. Tra questi i sanitari ed è stata proprio una giovane dottoressa a stimolare #1euroafamiglia: scriveva al Forum dicendo di aver fatto molti straordinari per cui aveva avuto un aumento di entrate dal suo lavoro di cui non aveva particolare bisogno e che voleva mettere a disposizione di chi invece non poteva più continuare a lavorare. D’altro canto, avevamo ricevuto anche molte richieste di aiuto.Si trattava di pensare a un sistema che mettesse in comunicazione chi poteva donare con chi temporaneamente aveva bisogno di sostegno. Abbiamo poi pensato che, se fossimo riusciti a stimolare non aiuti occasionali, ma una donazione minima costante per la durata dell’emergenza, avremmo potuto sostenere più famiglie.Il progetto si è concluso nella primavera del 2024.

Quali gli obiettivi del progetto?

È nato per sostenere appunto le famiglie che a causa della pandemia si sono trovate nella difficoltà di sostenere spese che normalmente affrontavano.#1euroafamiglia aveva 2 obiettivi. Il primo era evitare che l’emergenza sanitaria inducesse le famiglie ad indebitarsi tanto da avere poi difficoltà (passato il Covid) nel rimettersi in careggiata a causa di debiti necessariamente fatti. Il secondo era attivare la solidarietà familiare anche se indiretta, creare reti di aiuto. In fondo, sapevamo che la maggior parte delle famiglie non avrebbero avuto problemi a donare una cifra minima e così è stato, anche per un periodo più lungo di quanto ci potevamo immaginare.

Quanto avete raccolto?

Abbiamo raccolto circa 170.000 euro, con i quali abbiamo sostenuto circa 180 famiglie.

Alcune con cifre importanti ma mai oltre i 3.000 euro, altre con contributi minimi ma che hanno evitato invece problemi importanti.

Cosa avete fatto con i fondi raccolti? A che tipo di bisogni avete risposto?

Ci tengo a dire che tutto ciò che è stato raccolto è stato redistribuito. La gestione del progetto è stata sostenuta da volontari. I costi di sistema (apertura del sito e gestione delle pratiche) sono stati affrontati con fondi del Forum. A questo teniamo molto.Abbiamo aiutato famiglie con figli a carico a pagare spese sanitarie, scolastiche, bollette, affitti, tasse, insomma spese “quotidiane”.Molti i liberi professionisti che hanno sospeso la loro attività si sono trovati veramente nei guai. Tra i lavoratori dipendenti, chi non aveva un contratto stabile, ha perso il lavoro. In questo caso molte mamme, che integravano con lavori a tempo determinato o parziale il lavoro del marito, si sono ritrovate a casa senza stipendio. Quando poi la famiglia era disponibile, abbiamo attivato le nostre associazioni territoriali per creare possibilità di un sostegno diretto ma soprattutto sperando che si potesse creare una rete non virtuale, ma di vicinanza e sostegno. In alcuni casi ha funzionato molto bene, in altri meno.

Di fronte a problemi economici importanti come avete agito?

Abbiamo aiutato economicamente circa 180 famiglie, ma le richieste sono state di più. Circa 80 richieste (soprattutto negli ultimi mesi di progetto) non rientravano nel target che ci eravamo dati, erano purtroppo situazioni di indigenza, indebitamento grave. Tutte queste persone hanno ricevuto un’indicazione di realtà che potevano in qualche modo aiutarle. Noi non potevamo promettere un sostegno fisso mensile a tempo indeterminato come chiedevano. Contattando noi direttamente altri enti e spiegando le situazioni, cercavamo chi potesse farsi carico delle situazioni nei territori.

Caritas e consultori sono stati interlocutori importanti. Anche le parrocchie hanno aiutato molto.

Per problemi poi specifici (non di solo bisogno economico), ove possibile, abbiamo sollecitato le associazioni aderenti al Forum.

Avete avuto feed-back e notizie delle famiglie che avete aiutato?

La cosa più bella è che molte di loro sono diventate a loro volta donatrici, proprio perché 1 euro al mese non era un sacrificio.

Alcune hanno cercato di mettersi a disposizione di altri negli ambiti in cui vivevano. Alcune sono state disponibili ad aiutarci nella divulgazione del progetto, altre ancora ci hanno mandato delle belle mail in cui ringraziavano per l’aiuto economico sicuramente, ma soprattutto per aver sperimentato una gratuità e una solidarietà che ha ridato loro fiducia. Penso che in quei mesi questa vicinanza sia stata in effetti la cosa più gradita, infatti la richiesta di sostegno non si limitava alla compilazione di sterili moduli, ma avveniva con lunghe chiacchierate con alcuni volontari. Sono nate relazioni che sono durate nel tempo.

Perché avete deciso di chiudere il progetto?

Con la fine delle restrizioni per il Covid, abbiamo temuto molto gli effetti dello scoppio della guerra in Ucraina. In effetti, c’è stato un momento in cui sembrava che le richieste tornassero ad aumentare, ma il fatto che le attività lavorative erano per lo più riprese, molte delle richieste non rientravano nelle nostre possibilità di sostegno, ovvero per la maggior parte erano situazioni di difficoltà strutturale per le quali ci sono realtà che operano meglio di noi, da più tempo e con più risorse.È venuto meno il carattere emergenziale, per cui le nostre associazioni sui territori sono tornate ad essere in grado di farsi carico delle diverse difficoltà che normalmente le famiglie incontrano.

Si è creato un circolo virtuoso tra le famiglie che hanno donato e quelle che sono state aiutate, nel segno della sussidiarietà?

Assolutamente sì, quando le famiglie chiedevano aiuto chiedevano anche come restituire quanto avrebbero ricevuto.

I consulenti allora spiegavano che non si chiedevano indietro le cifre donate, si chiedeva però un piccolo impegno per il bene comune. Questa richiesta era ben accolta, anche se molti sembravano disorientati, non capivano cosa chiedessimo. Un gesto d’aiuto nei confronti di un’altra famiglia, di un anziano vicino, un piccolo impegno in qualche associazione di volontariato. Molti già facevano tutto ciò ma non avevano consapevolezza del valore di quei piccoli grandi impegni. Quindi, alcuni si sono attivati, altri hanno capito che facevano già parte di una rete.

Dopo il Covid, la guerra prima in Ucraina e poi il conflitto a Gaza hanno reso permanente la crisi economica anche lontano dagli scenari di guerra. Pensate a qualche nuovo progetto per aiutare le famiglie in difficolta?

Stiamo valutando, alle famiglie donatrici abbiamo mandato i ringraziamenti ma salutando con un “arrivederci”. È importante per il Forum mantenersi saldo alla sua mission che è valorizzare le famiglie. Quindi,il pensiero che stiamo facendo va nella direzione di attivare le potenzialità, facilitare relazioni, rendere consapevoli le famiglie che le loro risorse sono un capitale inestimabile da investire per migliorare la vita di tutti e soprattutto per dare speranza e futuro ai nostri giovani per il bene di tutti.

Gigliola Alfaro (AgenSir)




Caritas italiana e Agesci, fino al 31 luglio le candidature dei giovani per il progetto “Mi sta a cuore. Curare il presente per sognare il futuro”

Un anno di impegno presso la sede di Caritas italiana e presso le strutture della Caritas diocesana di Roma caratterizzato per questa edizione dall’attenzione all’ecologia, “per riscoprirci parte attiva del nostro ambiente, dei luoghi e dei territori che viviamo e influenziamo attraverso la nostra partecipazione”, come dice don Antonio De Rosa, responsabile del progetto per Caritas italiana.

Il progetto in questione è “Mi sta a cuore. Curare il presente per sognare il futuro”. Promosso insieme all’Agesci (Associazione guide e scout cattolici italiani), il bando è rivolto a giovani che si trovano “in una fase di scelta rispetto al proprio percorso di vita, al mondo del lavoro e all’assunzione di responsabilità personali e sociali e che hanno maturato dentro di sé il desiderio di un’esperienza di servizio attenta al territorio e ai bisogni dei più fragili. La partecipazione a questo progetto è un’occasione per fermarsi e mettere a servizio testa, cuore e mani, sperimentando che c’è più gioia nel dare che nel ricevere (At 20,35)”.

Le attività prenderanno il via il 16 settembre 2024 e dureranno fino al 12 settembre 2025. Si prevede di affiancare 4 giovani a quelli dell’annualità in corso.

«Questa proposta – sottolinea il direttore di Caritas italiana, don Marco Pagniello – si colloca all’interno di un’attenzione più ampia che come Caritas da sempre dedichiamo ai giovani. È pensata soprattutto per dare loro l’opportunità di aprirsi a nuovi mondi ed esperienze, attraverso un servizio che nasce dall’attenzione a temi importanti come quelli dell’ambiente e del protagonismo dei giovani e da un lavoro di rete con altre realtà come l’Azione cattolica e l’Agesci».

Le candidature – per la selezione di 4 ragazze e ragazzi di età compresa tra i 20 e i 30 anni – devono essere inviate entro e non oltre il 31 luglio 2024, tramite questo form al link forms.gle/LqE1XmtTRjvopYJp6, allegando la documentazione indicata nel bando completo, disponibile al link www.caritas.it/mistaacuore.

Per informazioni sul progetto: don Antonio De Rosa, mistaacuore@caritas.it oppure 393-4916964.

Aggiornamenti sul canale WhatsApp: whatsapp.com/channel/0029VaGfQb3HgZWkJNxCIn1Z.

Gigliola Alfaro (AgenSir)




Pax Christi Cremona ricorda padre Dall’Oglio, un monaco tra mistica e impegno per la pace

Nel mese di luglio ricorre l’anniversario del sequestro di Padre Paolo Dall’Oglio a Raqqa in Siria, il 29 luglio 2013. Pax Christi Cremona ricorda la sua figura per il legame che ha avuto con l’associazione e per il valore della testimonianza che ha lasciato, in un testo che di seguito pubblichiamo

Abbiamo incontrato padre Paolo tramite la Rete degli amici della Siria a cui eravamo collegati insieme ad associazioni, giornalisti, Comuni e parrocchie, a cui lui inviava notizie, in tempo reale, sulla situazione siriana e divulgava i suoi appelli alla comunità internazionale chiedendole di farsi carico seriamente della crisi siriana. E noi in quegli anni, tenevamo viva l’attenzione sulla Siria organizzando in città ripetuti incontri, delle veglie di preghiera anche con la sua presenza online, raccogliendo fondi per sostenere i profughi più bisognosi.

L’abbiamo poi invitato a Cremona nel giugno 2013, in una serata memorabile per il racconto toccante delle sofferenze del popolo siriano che lui viveva in piena condivisione e che cercava di alleviare facendosi mediatore tra le parti che si opponevano al regime.

Prete gesuita, aveva fondato nel 1982 il monastero di Deir Mar Musa, arroccato nel deserto di Damasco. Spiritualmente ispirato al pensiero dei padri del deserto, a Charles de Foucauld e all’islamologo cristiano Luis Massignon, Padre Paolo ha fatto di Mar Musa un centro di dialogo interreligioso islamo-cristiano e di incontro tra Oriente e Occidente. La sua missione in Siria – diceva – “era quella di testimoniare l’amore di Gesù per i musulmani attraverso l’accoglienza, il dialogo, la condivisione.” Una scelta in linea col Documento sulla Fratellanza umana di Abu Dabi, che è un riferimento importante per il dialogo interreligioso tra Islam e Cristianesimo e nell’ottica di costruire quella fraternità umana mondiale sollecitata dalla Fratelli Tutti.

Padre Paolo, uomo di fede, di profonda cultura,  amante del dialogo con tutti anche coi nemici, ha legato la sua storia a quella del popolo siriano. Nel 2011 ha sostenuto il movimento nonviolento dei giovani della primavera araba che volevano un Paese riconciliato, democratico e pluralista e che venivano violentemente repressi. Questa sua scelta gli costò l’espulsione dalla Siria da parte del governo di Assad.

Attento osservatore dei problemi siriani, già nell’incontro di Cremona aveva preannunciato la tragedia che stava per abbattersi sul Paese: una guerra civile sanguinosa, l’infiltrazione jihadista, l’intervento di potenze straniere nel conflitto con centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi. Purtroppo, tutto ciò si è avverato. Nonostante i suoi sforzi per fermare la catastrofe, incontrando figure come il segretario dell’ONU Kofi Annan, il presidente USA Obama, le Cancellerie europee e i Paesi arabi, non riuscì a cambiare il corso degli eventi.

A guerra in corso, nel luglio 2013, decideva di tornare in segreto a Raqqa, capitale dello Stato islamico, per negoziare la liberazione di un gruppo di ostaggi da parte dell’Isis; da quel momento, è scomparso, senza lasciare più alcuna traccia. Lo aveva spinto a Raqqa la sua ricerca del dialogo ‘a tutti i costi’ e la compassione per la sofferenza degli ostaggi.

“Sappiamo che non avrebbe desiderato incolpare della sua misteriosa e drammatica scomparsa l’Islam in quanto tale; rinunciare a quel dialogo appassionato in cui lui ha sempre creduto. Non si trattava di tattica politica, ma dello sguardo di un missionario che sperimenta, innanzitutto su di sé, la potenza della misericordia di Cristo. Uno sguardo non fondamentalista, ma lieve, pieno di quella speranza che non delude perché riposa in Dio. Sempre aperto al sorriso”. Lo ha scritto papa Francesco nella prefazione del libro di testi inediti di padre Paolo “Il mio testamento” pubblicato lo scorso anno dal Centro Ambrosiano.

Dal 2013 ad oggi, la situazione in Siria è ancor più drammatica: la guerra non è conclusa, i morti sono stimati attorno a mezzo milione, i rifugiati interni quasi 7 milioni e più di 5 milioni quelli espatriati. Si sono poi aggiunti l’embargo, il crollo economico del vicino Libano, il flagello del Covid e la tragedia del terremoto. Oggi, le Nazioni Unite stimano che 15 milioni di siriani necessitino di protezione e aiuti umanitari su una popolazione di 22 milioni. In questo quadro desolante i monaci sono ancora a Dei Mar Musa e continuano a vivere l’accoglienza umana e spirituale di quanti hanno bisogno. “Siamo rimasti -hanno scritto-per fedeltà al Signore, che ci ha chiamati qui e che non ci ha chiesto di andarcene, siamo rimasti in solidarietà con i cristiani delle nostre parrocchie e con i nostri amici musulmani. Siamo rimasti guardando oltre e aspettando la seconda venuta di Cristo”.

Pax Christi Cremona

 

 




Dialogo, disponibile il numero estivo

“C’è un tempo per ogni cosa…”, si intitola così il dossier del numero 5/6 di Dialogo. Giunti sulla soglia dell’estate, , il periodico dell’Azione Cattolica Cremonese si sofferma a riflettere sul  senso e sul valore della stagione che ci attende, cioè il tempo della vacanza. Tempo di svago? Tempo di avventura? Tempo di libertà? Tempo di crescita interiore? L’estate è un tempo diverso, in cui fare esperienze che ci sono precluse nei giorni del lavoro e della scuola.

È un’occasione per fare sosta e prendersi cura di se stessi, del proprio mondo interiore, e per riscoprire l’attenzione agli altri, la bellezza dell’amicizia e dell’incontro, la gioia della condivisione. Senza però chiudere gli occhi nei confronti di chi, nel nostro e in altri paesi del mondo, le vacanze non le può fare perché le condizioni economiche e/o politiche gliene negano il diritto.

Molti hanno sperimentato nei campiscuola dell’Azione Cattolica straordinarie esperienze di amicizia, preghiera, ascolto, discernimento, incontro. E sono grati all’Azione Cattolica che continua ad offrire a ragazzi e adolescenti, a giovani e ad adulti la possibilità di vivere momenti che ricorderanno sempre come quelli in cui la loro vita ha preso una forma e ha ravvivato il suo senso.

 

Il numero estivo di Dialogo




Il 21 giugno una fiaccolata per la pace da Cicognara a Viadana

Venerdì 21 giugno Tavola della Pace, Comunità Laudato Si OglioPo, ANPI Viadana e Donne per la Pace, con l’adesione di Pax Christi e Comunità Laudato Si Cremona promuovono una fiaccolata per la pace per dichiarare la comune volontà di “uscire dal sistema di guerra” chiedendo a gran voce che tacciano le armi e si negozi la pace, nel rispetto del diritto internazionale, in tutti i teatri di guerra, anche in quelli più remoti e dimenticati ma non per questo meno sanguinosi e atroci.

Appuntamento alle ore 20.30 a Cicognara, in piazza don Primo Mazzolari, davanti alla Chiesa di santa Giulia, per la consegna delle fiaccole e, dopo una breve introduzione del parroco don Alessandro Maffezzoni, il corteo si snoderà seguendo l’argine, con due soste intermedie animate dalle associazioni promotrici e conclusione a Viadana, in piazza Matteotti, davanti al Municipio.

La fiaccolata sarà anche l’occasione per condividere il Manifesto dell’Arena di pace e giustizia elaborato dalle associazioni che hanno incontrato Papa Francesco all’assemblea dei Movimenti popolari a Verona il 18 maggio e che, dopo mesi di confronto nei Tavoli tematici su cinque temi cardine del “sistema di guerra”, hanno sintetizzato in un documento il drammatico scenario attuale che determina a vario titolo le guerre in corso in tutto il mondo (attualmente sono 56 le guerre ad alta intensità, ma sono molti di più i conflitti armati anche interni ai vari Paesi).

«In particolare, il documento – precisano i promotori dell’iniziativa – si concentra su pace e disarmo poiché è questo il punto nevralgico che Papa Francesco non si stanca mai di denunciare: la armi sono di per sé la minaccia più grave e incombente».

Il Manifesto conclusivo di Arena di Pace, perciò, dichiara “Ripudiamo la violenza e chiediamo il cessate il fuoco per tutte le guerre. Pratichiamo la nonviolenza. Vogliamo la riduzione delle spese militari e la riconversione dell’industria militare, la rimozione delle armi nucleari dall’Italia e l’adesione al Trattato che le proibisce, il controllo e la trasparenza sul commercio delle armi, la costituzione di corpi civili di pace per la difesa civile. Sosteniamo l’obiezione alla guerra, la diplomazia anche dal basso, le pratiche di riconciliazione, il dialogo interreligioso, il rinnovamento dell’ONU, un’Europa attivamente neutrale.” Nell’occasione saranno ascoltate la voce di alcuni testimoni di pace intervenuti in Arena insieme agli scritti di profeti della nonviolenza.

«È necessario – sostengono gli organizzatori – educarci per primi a ripudiare la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie e poiché siamo tutti in cammino verso il comune obiettivo della pace, sappiamo bene che di strada da fare ne resta ancora molta, perché è molto difficile sradicare ed estirpare anni e anni di condizionamento bellico (“se vuoi la pace prepara la guerra”), ma ormai dobbiamo prendere atto che se prepari la guerra, avrai la guerra. Invitiamo tutti e tutte, perciò, a partecipare alla fiaccolata per cominciare ad interiorizzare che la pace è uno stile di vita non solo personale ma collettivo. La pace è un impegno di tutti: camminiamo insieme!».

Il volantino con il percorso




Unitalsi in lutto per la scomparsa dell’ex presidente Gaetano Galvani

È salito al Cielo la sera di venerdì 14 giugno, dopo una lunga malattia e una sofferenza cristianamente accettata, Gaetano Galvani, storico presidente dal 1986 al 2003 della Sottosezione di Cremona dell’UNITALSI, l’associazione ecclesiale che, tra le tante attività, organizza i pellegrinaggi per Lourdes e altri santuari italiani e internazionali, con particolare attenzione alle persone con disabilità, malate, anziane o bisognose di aiuto.

Da anni nell’associazione, subentrò al compianto Nicola Meazzi come presidente nel 1986 e resse le sorti della locale sottosezione sino al 2003, rimanendo sempre fedele e attivo.

La camera ardente sarà allestita presso l’Ospedale Maggiore di Cremona lunedì 17 giugno dalle ore 8 alle 18 e martedì 18 giugno dalle ore 8. Il funerale sarà celebrato martedì 18 giugno alle ore 10 nella chiesa parrocchiale di Pieve Delmona, paese nativo e di residenza di Galvani.




“Il lavoro occasione di partecipazione”, il 15 giugno al Centro pastorale diocesano incontro di avvicinamento alla Settimana Sociale di Trieste

In preparazione alla 50ª Settimana sociale dei Cattolici in Italia che si terrà a Trieste dal 3 al 7 luglio sul tema “Al cuore della democrazia”, l’Ufficio di Pastorale sociale e del lavoro della Diocesi di Cremona, insieme ad Acli Cremona, Cisl Asse del Po e Confcooperative Cremona, promuove una mattinata di riflessione e confronto.

Proprio a partire dal tema generale di Trieste si intende approfondire l’aspetto legato al lavoro come occasione di partecipazione e di costruzione della democrazia. Sarà anche questo un contributo che, come Diocesi di Cremona, sarà portato alla Settimana Sociale di Trieste.

L’appuntamento – dal titolo “Il lavoro occasione di partecipazione” – è per sabato 15 giugno presso la sala Spinelli del Centro pastorale diocesano di Cremona (via S. Antonio del Fuoco 9 A) con l’inizio dei lavori in programma alle 9.30.

Dopo una prima parte a cura della Cisl su “Lavoro, giovani e partecipazione”, il presidente di Acli Lombardia Martino Troncatti interverrà su “I corpi intermedi nel mondo del lavoro”.

Si lascerà quindi spazio al racconto delle “buone pratiche” con Giusi Biaggi della coop. Nazareth e Enzo Zerbini della coop. Il Calabrone.