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Il saluto degli Scout al vescovo Antonio: «Ci aiuti a rinnovare l’entusiasmo»

Dopo quello dell’Azione Cattolica cremonese, di Comunione e Liberazione e del Cammino Neocatecumenale pubblichiamo il saluto che l’Agesci (Associazione Guide e Scouts Cattolici Italiani) rivolge al nuovo vescovo, mons. Antonio Napolioni, il quale è stato assistente nazionale e regionale di questa realtà educativa che coinvolge migliaia di bambini, ragazzi e giovani in tutta Italia. Nella foto un don Antonio “giovanile” insieme a due lupetti.


L’Associazione Guide e Scouts Cattolici Italiani della zona Cremona-Lodi accoglie festante il Vescovo Antonio, fratello scout di lunga data. Insieme crediamo nell’uomo dalle maniche rimboccate, presente ove si crea la vita e si costruisce la libertà in Cristo, che si sporca le mani in opere di giustizia, caparbio nello sperare contro ogni speranza, raccomandiamo al Signore il nostro nuovo pastore.

Eccellenza reverendissima,
                                              gli scout della Diocesi di Cremona e della Zona Cremona-Lodi sono lieti e orgogliosi di averla come Pastore e sono trepidanti nell’attesa di poterla incontrare personalmente!

Conosciamo tutto l’impegno che Lei ha profuso nello scautismo in questi anni in cui ha ricoperto l’incarico di Assistente Ecclesiastico, nazionale e regionale. Impegno in termini di tempo ma anche e soprattutto di energie e contributi importanti nella formulazione del Sentiero Fede.

Il metodo scout non ha segreti per Lei che ne conosce profondamente le preziose intuizioni e i punti di forza. Ma conosce anche la debolezza e la fatica che gli stessi capi a volte incontrano nel viverlo e nel testimoniarlo.

Eccellenza, siamo certi che potrà aiutarci nel rinnovare l’entusiasmo per affrontare le sfide dell’educare i bambini e giovani ad essere buoni cristiani e buoni cittadini, fortezza per saper compiere le scelte alte che la fede esige, perseveranza e fedeltà per respirare l’aria pura di una vita interamente dedicata al servizio: l’unico modo per lasciare il mondo un po’ migliore di come lo si è trovato.

Per tutto questo La ringraziamo anticipatamente e Le garantiamo fin d’ora il sostegno della nostra preghiera.  

Saremo sempre pronti, come recita il nostro motto, a seguire le indicazioni che vorrà darci per camminare insieme in questo Anno della Misericordia e negli anni che seguiranno.

Buona strada!

per Il Consiglio di Zona AGESCI Cremona-Lodi
Massimo Marco Mapelli
Responsabile di AGESCI Zona Cremona-Lodi
Don Giuseppe Manzoni
A.E. di AGESCI Zona Cremona-Lodi

Il saluto di Azione Cattolica, Cielle e Neocatecumenali

Lo speciale sull’elezione del nuovo vescovo Antonio




Ritiro spirituale del clero sulla figura di Vincenzo Grossi

In preparazione alla canonizzazione del beato Vincenzo Grossi i presbiteri cremonesi hanno vissuto un intenso momento di riflessione e preghiera. Il tradizionale ritiro missionario, tenuto il 1° ottobre in Seminario, è stato, infatti, l’occasione per focalizzare l’attenzione su questo sacerdote cremonese vissuto a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento e che ha vissuto la sua santità nell’esercizio quotidiano del suo ministero di parroco, prima a Regona di Pizzighettone e poi a Vicobellignano. Madre Marilena Borsotti, originaria di Pizzighettone, che fino al giugno scorso ha ricoperto l’incarico di superiora generale dell’Istituto “Figlie dell’oratorio”, ha tenuto la meditazione. Un centinaio i sacerdoti presenti.

Nella sua riflessione la religiosa si è soffermata in modo particolare su quattro parole che ben sintetizzano l’esperienza cristiana e sacerdotale del beato Vincenzo: ringraziare, osservare, coinvolgere e agire.

Anzitutto don Grossi ha vissuto la sua fede e poi la sua scelta di diventare presbitero come una risposta ad un Dio che l’ha amato e salvato. Forte era in lui la riconoscenza al Signore per un amore gratuito e immeritato. In secondo luogo egli ha osservato con attenzione e sempre in spirito di fede la realtà che lo circondava. Il Beato si è sempre trovato in situazione non facili, dove regnava la miseria e l’ignoranza e dove la vita cristiana era ridotta al lumicino: senza scoraggiarsi, partendo proprio dalla realtà, egli ha saputo andare incontro alle persone, in modo particolare ai giovani con semplicità ed efficacia. Il suo impegno, però, non è stato solitario: egli ha sempre cercato di coinvolgere i laici nell’opera missionaria e ha sempre creduto, vero e proprio antesignano, nella capacità apostolica delle donne, tanto da fondare un istituto religioso. Infine il suo agire è sempre stato nel segno dello zelo, ma anche della serenità e della letizia: molti contemporanei lo hanno sempre dipinto come una persone piena di iniziativa, ma allo stesso imperturbabile, che, cioè, non si angustiava dei risultati.



A Cremona attività di volontariato dei migranti in servizi utili alla collettività

Saranno individuati, all’interno dei Settori dell’Amministrazione comunale di Cremona, servizi ed attività utili alla collettività e che possano essere svolti, sotto forma di volontariato, dai migranti ospiti di alloggi destinati all’accoglienza. Lo scopo è permettere la realizzazione di percorsi di integrazione a favore di cittadini stranieri che hanno presentato istanza per il riconoscimento della protezione internazionale o sono in attesa della definizione del ricorso ospitati nelle apposite strutture presenti sul territorio.

Lo ha deciso la Giunta comunale di Cremona formalizzando l’adesione allo specifico accordo di collaborazione che l’Azienda Sociale del Cremonese ha sottoscritto con la Provincia, il Cisvol, il Forum provinciale e territoriale del Terzo Settore, le organizzazione sindacali più rappresentative e i soggetti gestori delle attività di accoglienza.

Sul territorio nazionale e regionale sono state realizzate importanti e positive esperienze di integrazione e inserimento sociale dei richiedenti protezione internazionale presenti nelle diverse strutture di accoglienza, sperimentando inedite sinergie di collaborazione tra gli enti locali, i servizi pubblici e vari soggetti del Terzo Settore e del privato sociale.

“Anche a Cremona – precisa una nota del Comune di Cremona – il flusso di migranti rende necessario da un lato il sostegno ad iniziative volte ad assicurare adeguata accoglienza e, allo stesso tempo, interventi che favoriscano il positivo inserimento dei cittadini stranieri nei contesti territoriali nei quali vengono accolti”.

In questa direzione si è mossa l’Azienda Sociale del Cremonese promuovendo lo specifico accordo di collaborazione. “Un’intesa – prosegue il comunicato – che ben interpreta la necessità di promuovere percorsi che potranno consentire ai migranti di interagire positivamente con il contesto sociale che li ospita, svolgendo attività di volontariato, per stimolare un ruolo attivo e partecipe all’interno della comunità che li accoglie. Questo, infatti, favorisce lo sviluppo di adeguati processi di integrazione tali da permettere la crescita della coesione sociale, contribuire alla prevenzione e al superamento delle cause dei conflitti, nonché al miglioramento generale delle condizioni della sicurezza pubblica”.




La Messa di ringraziamento delle diocesi di Cremona e Lodi per la canonizzazione di Grossi nella chiesa di san Filippo Neri

Con la celebrazione eucaristica nella chiesa di San Giovanni dei Fiorentini e la visita alla chiesa di Santa Maria in Vallicella si è concluso, lunedì 19 ottobre, il pellegrinaggio a Roma delle diocesi di Cremona e Lodi in occasione della canonizzazione di don Vincenzo Grossi, parroco cremonese beatificato nel 1975 da papa Paolo VI, fondatore delle “Figlie dell’Oratorio”. Le due chiese romane, a pochi passi dal Tevere, non sono state scelte a caso: entrambe conservano la memoria di Filippo Neri, santo mistico del XVI secolo dal quale il Grossi attinse molta della spiritualità e delle sue intuizioni pastorali soprattutto nei confronti delle nuove generazioni. La Messa, iniziata poco dopo le 9.30, è stata concelebrata dai vescovi Malvestiti e Lafranconi e da una ventina di sacerdoti, tra di essi il parroco di Pizzighettone-Regona-Roggione don Enrico Maggi, l’arciprete di Viadana, don Antonio Censori e il postulatore della causa di canonizzazione di San Vincenzo, il padre trinatario spagnolo padre Antonio Saez de Albeniz. Massiccia la presenza delle suore “Figlie dell’Oratorio” con la madre generale Rita Rasero e quella emerita Marilena Borsotti.

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Curiosamente i due presuli si sono divisi l’omelia, mons. Malvestiti si è soffermato sulle letture della Messa, mentre mons. Lafranconi ha riflettuto sul senso profondo della santità.

Il vescovo di Lodi ha centrato la sua riflessione sul comando di Gesù: «Che vi amiate gli uni gli altri» domandandosi: «Ma agli amici si comanda? Può essere buona notizia un comando? Tra poco entreremo nel cuore dell’Eucaristia e sentiremo un altro comando del Signore: “fate questo in memoria di me”. Ai sacerdoti è chiesto di celebrare il segno dell’amore assoluto e irrevocabile di Dio raccolto nella santa cena che rende perenne l’immolazione della Croce. Agli stessi sacerdoti e ai fedeli è rivolto l’invito preciso di vivere quella stessa immolazione nel servizio di carità».

«Si può comandare – ha proseguito il presule – solo l’amore che nulla toglie e tutto dona. Si può comandare solo se chi lo fa ama immolando se stesso! Allora si tratta di un servire più che di un comandare e di educare nel senso più vero perché il maestro è anche testimone e profeta e anticipatore del domani».

Mons. Malvestiti ha ricordato quindi che «i giovani si lasciano affascinare solo se gli educatori sono sapienti testimoni e profeti che carpiscono dal cuore di Dio la novità! Così hanno saputo fare e amare San Filippo Neri e il suo esemplare discepolo San Vincenzo Grossi affascinando con la loro vita buona e il ministero instancabile, perseverando in ogni contrarietà pur di rimuovere il male: la menzogna e la disperazione dai cuore, la fragilità dal corpo e dallo spirito, l’ingiustizia, l’indifferenza e la corruzione dalla società per riportare ovunque intensa e pace col perdono di Dio».

E così ha proseguito: «Come autentici padri e madri diventeremo capaci di far capire che il bene è irrinunciabile e, se chiedendo doneremo noi stessi, potremo essere anche esigenti. Compito arduo questo comandare immolando se stessi, possibile solo per chi “rimane nel suo amore” – quello di Cristo – del quale è sorgente e culmine la divina liturgia».

Nel suo breve intervento mons. Lafranconi è partito da un inno della liturgia delle ore che definisce i santi: «pietre vive e prezioso scolpite dallo Spirito»: «Noi dobbiamo – ha esordito il vescovo di Cremona – lasciarci affascinare dall’opera dello Spirito e da queste figure mirabili. In questa Eucarsitia ringraziamo Dio per aver scolpito queste vere e proprie opere d’arte così necessarie per la costruzione della città di Dio. E la città di Dio non è altro che la Chiesa».

«Mentre siamo qui per ringraziare il Signore – ha proseguito il vescovo Dante -, vogliamo anche riconoscere ciò che questi santi hanno fatto per il bene dell’intera comunità ecclesiale. Chi di noi, se in famiglia ha delle persone particolarmente meritevoli, non se ne vanta con gli altri? Ebbene noi facendo parte della famiglia della Chiesa siamo orgogliosi di queste figure così significative». Infine l’invito a vivere fino in fondo le esigenze radicali del Vangelo così come fece, con semplicità e umiltà, San Vincenzo Grossi.

Al termine della Messa, animata dai canti degli oltre trecento fedeli presenti, madre Rita Rasero ha ringraziato il Signore per questa esperienza indimenticabile spronando ad accogliere il messaggio di santità del nuovo Santo e di Filippo Neri oltre al loro zelo pastorale soprattutto nei confronti dei giovani.

Dopo la benedizione episcopale, mons. Luigi Veturi, guida spirituale di San Giovanni dei Fiorentini, dove San Filippo Neri esercitò il ministero di parroco, ha dato il suo saluto ricordando che la chiesa dai lui retta sarà una delle mete privilegiate del prossimo Giubileo poiché conserva la reliquia del piede di Santa Maria Maddalena, tra i personaggi evangelici che più di tutti ha goduto della misericordia di Dio.

La mattinata si è quindi conclusa nella chiesa di Santa Maria in Vallicella, dove è sepolto il corpo di San Filippo Neri. In questo bellissimo tempio sacro, scrigno di innumerevoli e stupende opere d’arte, mons. Malvestiti ha ricordato la figura di Filippo Neri, il suo carisma, il suo zelo educativo, la sua opera.

Dopo il pranzo la comitiva dei cremonesi composta soprattutto da fedeli di Pizzighettone e Viadana ha fatto ritorno in diocesi.




Anniversario della morte di don Cesare Rossi: iniziative in suo ricordo nella parrocchia di Romanengo

Il 30 novembre ricorre un anno dalla prematura scomparsa di don Cesare Rossi. Diversi i momenti in suo ricordo programmati dalla Parrocchia di Romanengo: un concerto la sera di sabato 28; messa con inaugurazione di un targa domenica 29; Eucaristia di suffragio lunedì 30.

Sabato 28 novembre alle 21 nella chiesa parrocchiale di Romanengo si esibirà l’Orchestra di fiati di Crema “Il Trillo” diretta da Davide Pedrazzini. La serata di musica classica è organizzata dalla Parrocchia in collaborazione con il Movimento del malato, che si occupa in particolare delle persone affette di psoriasi. Non è la prima volta di un concerto di questo genere: proprio don Rossi diede avvio a questa iniziativa, dedicata a quanti sono affetti da questa patologia. Proprio per questo al termine del concerto a tutti i presenti sarà data una confezione di profumi e una rosa arancio, simbolo della lotta contro questa malattia.

Domenica 29 novembre alle 10.30 Messa in ricordo di don Cesare presieduta dal vicario generale, mons. Mario Marchesi. La celebrazione, animata dalla corale parrocchiale diretta dal maestro Fortini, vedrà in particolare la presenza dei giovani di don Cesare e di quanti l’hanno conosciuto durante il suo ministero in diocesi. Al termine sarà inaugurata e benedetta una targa in marmo a memoria posta in chiesa parrocchiale e sulla quale è riportata la frase detta da don Cesare nel suo ingresso a Romanengo: “Voi siete il mio tesoro”.

Nel giorno anniversario della morte, lunedì 30, Messa di suffragio celebrata dal suo successore, don Emilio Merisi.




Il ritratto di Charles de Focauld nelle parole di don Aldighieri: on-line l’audio

Un uomo che seppe tradurre il suo essere cristiano nella silenziosa e costante testimonianza quotidiana. Questo il ritratto di Charles de Focauld che martedì 2 dicembre don Mario Aldighieri ha tracciato nell’incontro presso la biblioteca del Centro pastorale diocesano di Cremona. L’intento era quello di ripercorrere le tappe principali della vita del religioso francese perché, traendo spunto dalla sua esperienza, si possa ricavare un’attuale lezione, per quanto riguarda i rapporti con le altre culture, in particolare quella musulmana.

Don Aldighieri ha ricordato che Papa Francesco ha evidenziato l’importanza di questa figura all’inizio del recente Sinodo sulla famiglia, esaltando il suo rifiuto delle ricchezze a partire dalla povertà predicata dalla Famiglia di Nazareth: egli seppe “farsi tutto a tutti”, avendo compreso che amando gli altri, in particolare i più poveri, si impara ad amare Dio.

Don Mario ha dunque raccontato alcuni momenti significativi della vita di Charles de Focauld (1858-1916) che hanno portato quest’uomo al dono totale della sua esistenza. Proveniente da una famiglia nobile e cristiana, Charles si allontana presto dalla fede, dopo la morte prematura dei genitori e del nonno che si era preso cura di lui. Ben presto perde anche la sua patria, la Lorena, strappata ai francesi dalla Germania. Decide di intraprendere la carriera militare, vivendo intanto una vita di gozzoviglie. Grazie all’esercito viene a contatto con la realtà algerina e, dopo varie vicissitudini, con la popolazione dei Tuareg. Il primo approccio con la cultura musulmana è quello tipico della mentalità europea del tempo, del dominatore francese, portatore di civiltà in una realtà barbara inferiore alla propria cultura.

Charles nella sua esperienza militare riesce a non perdere quell’umanità che ad un certo punto gli fa lasciare l’esercito, per tornare da libero cittadino in Marocco, attratto dal deserto, attraverso il quale desiderava raggiungere Gerusalemme. Poiché allora avrebbero potuto entrare in Marocco solo gli ebrei, Charles si finge tale, prendendo la falsa identità di rabbino e cominciando così la sua esplorazione. Quando su di lui comincia a maturare qualche sospetto, sono proprio i musulmani a trarlo in salvo e a ospitarlo. Si avvicina così alla cultura islamica, imparandola e meditandola. Ciò gli provocai un profondo turbamento: Charles intuisce che in quel credo ci sia qualcosa di vero, ma non trova in quella religione il fondamento di tutto.

Quando torna in Francia la sua esistenza cambia totalmente: cancella il suo titolo nobiliare di visconte, vive per strada nella povertà e, grazie ad un sacerdote, don Huvelin, ritrova la sua fede in Dio. Decide, così, di intraprendere il viaggio in Terra Santa che aveva sempre voluto svolgere e nella visita rimane particolarmente colpito dall’ambiente di Nazareth, città nella quale tornerà a servire le Clarisse dopo l’esperienza come monaco trappista in Siria.

Charles comprende che non è chiamato a ricoprire la figura di religioso in quelle terre dalla cultura tanto differente dalla sua: lui vuole stare con quella gente da uomo qualunque, vivendo il suo essere cristiano prima ancora di predicarlo. Il dovere assoluto è quello verso i poveri, i più bisognosi, dei quali nessun altro si occupa. Il suo desiderio più grande diventa quello di portare Cristo (e dunque l’Eucarestia) dove ancora non è arrivato, non tanto con la predicazione, quanto vivendo in prima persona il Vangelo. La sua dedizione e la sua mitezza arrivarono ad assumere caratteri talmente radicali da essere appellato dalla popolazione locale “il folle cristiano”.

L’apice della sua esperienza si verifica nel periodo vissuto nel deserto del Sahara al confine del Marocco. Lì, dopo essere ordinato sacerdote, vive in una umile casa, aperta tutte le ore a chiunque avesse bisogno di aiuto o semplicemente di conforto, tanto che cominciano a chiamarla “La fraternità”. Rimane in particolare a stretto contatto con i Tuareg, dei quali cerca di conoscere la lingua (il tamasheq) e le tradizioni, arrivando anche a intraprendere la difficile impresa di traduzione della Bibbia per diffonderla in quella popolazione e la creazione di un dizionario francese-tamasheq.

Charles, seguendo i tuareg anche nei loro spostamenti – è questa infatti una popolazione nomade – e stando accanto a loro, arriva stravolgere l’immagine comune del missionario: prima di qualsiasi conversione era fondamentale per lui la comprensione e il rispetto delle culture incontrate. La presenza cristiana di Charles non consisteva nella predicazione – tanto che non poteva nemmeno celebrare la messa –, ma nella pratica costante e silenziosa dell’amore e dell’affetto.

In quel periodo della sua vita – ha sottolineato don Aldighieri – impara anche a ricevere. Ammalatosi due volte, la seconda rischia di morire: sono proprio i tuareg che si impegnano a salvare questo fratello che è sempre con loro, intraprendendo un lungo viaggio per procurargli il necessario per vivere.

Il sacerdote cremonese si è così soffermato sulle parole di Charles in riposta alla domanda postagli da un medico che lo visitava sul motivo della sua ostinata presenza in quella terra. Gli scrisse Charles: «Mio caro dottore, io sono qui non per convertire in un sol colpo i tuareg, ma per cercare di capirli e di migliorarli. E poi, io desidero che i tuareg abbiano il loro posto in paradiso. Sono certo che il buon Dio accoglierà nel Cielo coloro che sono stati buoni e onesti, senza bisogno che siano cattolici romani. Lei è protestante, lui è incredulo, i tuareg sono musulmani: io sono persuaso che Dio ci riceverà tutti, se lo meritiamo e cerco di migliore i tuareg perché meritano il Paradiso».

In questo particolare momento storico, che stimola la riflessione sul rapporto tra culture diverse, la figura di Charles de Focauld (proclamato beato da papa Benedetto XVI il 13 novembre 2005) invita ad intraprendere un cammino, a percorrere insieme al diverso un pezzo di strada che, anche se tragica e complessa, testimonia il significato altissimo della fraternità. L’invito di Charles è ad essere presenza, anche facendo un passo indietro rispetto alla propria identità, non negandola, ma accantonandola per un momento, per far un po’ più di spazio alla vita degli altri, in particolare se sono poveri e se di loro nessuno si prende cura.

http://archivio.diocesidicremona.it/main/file/DOWNLOAD/InterventoDonAldighieri.mp3




L’Istituto Figlie dell’Oratorio a servizio delle giovani generazioni collaborando con i sacerdoti

Le Figlie dell’Oratorio, religiose di diritto pontificio, si propongono di vivere la sequela del Signore Gesù, nella Chiesa, mediante i tre voti di povertà, castità e obbedienza. Secondo il carisma donato loro dal beato Vincenzo, e in virtù della grazia battesimale, ricercano la conformazione ai sentimenti del Cuore di Cristo per essere testimoni gioiose dell’amore di Dio, in modo particolare servendo le giovani generazioni e mediante una attiva e discreta collaborazione con i sacerdoti nell’apostolato parrocchiale.

Attualmente le Figlie dell’Oratorio vivono e operano in 21 comunità e sono presenti in Italia, Argentina ed Ecuador. In Italia le comunità si trovano in Lombardia, Emilia, Toscana, Lazio, Basilicata, Calabria e Sicilia. Le suore sono circa 150; in questi ultimi anni due giovani hanno mostrato il desiderio di condividere il carisma delle Figlie dell’Oratorio: una ora è professa temporanea, l’altra sta compiendo il cammino di Noviziato.

Dal 21 giugno al 7 luglio scorso a Ronchiano di Castelveccana si è svolto il XVI Capitolo generale, nel quale è stato eletto il nuovo Capitolo generale. Alla pizzighettonese madre Marilena Borsotti, è succeduta come superiora generale la comasca madre Rita Rasero.

Con l’ausilio di personale laico e di collaboratori, le Figlie dell’Oratorio esprimono la missione ricevuta attraverso le scuole dell’infanzia, la scuola primaria, le opere di accoglienza per giovani studentesse e lavoratrici, il doposcuola, la catechesi, le proposte di formazione umana e spirituale, la pastorale giovanile e l’animazione oratoriana.

 

La presenza in diocesi di Cremona dei luoghi di don Vincenzo

Alcune comunità si trovano proprio nei luoghi che appartengono alla storia di don Vincenzo Grossi.

Una comunità di tre sorelle si dedica all’apostolato nelle cinque comunità parrocchiali del comune di Pizzighettone. Un territorio particolarmente importante per l’Istituto: don Grossi è nato a Pizzighettone nel 1845; ha trascorso i primi mesi del suo sacerdozio a Gera di Pizzighettone; per dieci anni ha svolto il ministero di parroco a Regona di Pizzighettone. Le suore, secondo l’insegnamento del Fondatore, cercano di dare il loro sostegno e la loro collaborazione ai sacerdoti in questa estesa realtà ecclesiale che richiede forti motivazioni e un cordiale cammino verso la comunione.

Non lontano da Pizzighettone, altra presenza è nel lodigiano, a Maleo, dove le Figlie dell’Oratorio offrono la propria testimonianza e collaborazione alla locale scuola dell’infanzia. Si tratta di un luogo dove don Grossi si recava frequentemente per la predicazione, per l’amicizia con il parroco, mons. Pietro Trabattoni, e per riunire il numero crescente di Figlie dell’Oratorio, curandone direttamente la formazione.

La presenza delle suore in diocesi anche a Viadana: la comunità delle suore, che ospita una numerosa scuola dell’infanzia e un attivo doposcuola, si trova nei pressi di Vicobellignano (paese nel quale don Vincenzo è stato parroco per trentaquattro anni) e Ponteterra (dove è sorta una delle prime comunità), insieme ad altri centri rurali dove le Figlie dell’Oratorio hanno iniziato a operare, nella povertà e secondo lo spirito di adattamento che il Fondatore chiedeva loro.
«Essere presenti nei luoghi della vita e dell’opera di don Vincenzo – afferma madre Marilena Borsotti, fino all’estate scorsa superiora generale – porta in sé una ricchezza e un grande significato. È un impegno di testimonianza, a vivere il carisma ricevuto con la sua sfumatura di originalità, un appello a far conoscere e apprezzare la figura di don Vincenzo Grossi, ancora così fresca e attuale, e un messaggio di speranza». «In contesti che ci appaiono a volte aridi o fortemente secolarizzati – prosegue la religiosa – la luce della santità può essere motivo di dialogo e di stimolo per tutti, credenti o indifferenti. Anche don Vincenzo ha lavorato in ambienti e in tempi non facili, la sua perseveranza nella fede e nel ministero è ancora oggi altamente significativa».

 

La Casa Madre e Generalizia

La Casa Madre e Generalizia delle Figlie dell’Oratorio è situata a Lodi, al civico 27 di via Paolo Gorini.

Lo stesso Fondatore, nel maggio del 1901, aveva acquistato lo stabile per la residenza della prima casa delle suore. Nello stesso anno vi incorporò il noviziato e successivamente il collegio, l’esternato, l’asilo infantile, la scuola elementare, la scuola di lavoro e l’assistenza scolastica.

Nel 1917 fu acquistata la vicina casa Santa Croce e si trasformò la vecchia chiesa posta all’interno in una decorosa cappella ad uso delle suore della comunità e delle novizie. Oggi nella cappella Santa Croce di Casa Madre sono custodite le spoglie mortali di don Vincenzo Grossi.

Attualmente la casa Madre e Generalizia ospita la Madre generale, la Vicaria e una numerosa comunità di religiose che gestiscono: la scuola dell’infanzia, il pensionato per giovani studenti e lavoratrici, l’assistenza scolastica per ragazze delle scuole medie; inoltre la Diocesi di Lodi utilizza i locali della Casa Madre per la scuola elementare.




“Piccolo fratello Charles de Foucauld e l’Islam, una lezione di vita” mercoledì 2 dicembre al Centro pastorale con don Aldighieri

Sarà don Mario Aldighieri ad aiutare a riflettere sul “Piccolo fratello Charles de Foucauld e l’Islam, una lezione di vita” mercoledì 2 dicembre, alle 18, presso la Biblioteca del Centro pastorale diocesano di Cremona. L’incontro è stato organizzato nell’ambito del centenario della morte di Charles de Foucauld, Piccolo fratello di Gesù, ucciso il 1° dicembre 1916 in Algeria, durante la Prima Guerra Mondiale.

Si guarderà a Charles de Foucauld, beatificato da papa Benedetto XVI il 13 novembre 2005, per interrogarsi su quale cammino percorrere con i musulmani – spiegano gli organizzatori – in quest’ora di dolore per tanti fratelli cristiani e musulmani.

“L’islam ha prodotto in me un profondo sconvolgimento… la vista di questa fede, di queste anime che vivono nella continua presenza di Dio, mi ha fatto intravedere qualcosa di più grande e di più vero delle occupazioni mondane… Mi sono messo a studiare l’Islam, poi la Bibbia e con la grazia di Dio che agiva, la fede della mia infanzia si è trovata affermata e rinnovata” (Lettera a Charles de Castries 8/01/1901).




Giornata delle persone con disabilità: ma chi lo è realmente?

Il 3 Dicembre è stata celebrata la Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità, proponiamo una riflessione del diacono Marco Ruggeri, che si occupa del progetto Pet Therapy “La Isla de Burro” che ha come protagonisti spesso delle persone diversamente abili.

Mentre ripensavo al lavoro fatto in questi anni con gli asini del progetto di Pet Therapy “La Isla de Burro”, alle tante persone incontrate, alle ore condivise, alle esperienze maturate, dopo essermi attentamente consultato con tutti e tredici i somari, sono arrivato alla conclusione che l’impostazione di questa giornata andrebbe se non completamente rivista, almeno profondamente integrata.

Si potrebbe fare in questo modo: teniamo il 3 Dicembre così, perché comunque da raccontare, fare e capire sul mondo della disabilità ce né un sacco ed è vitale farlo, ma per favore il 4 Dicembre diventi la “#Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità che non sanno di avere”.
 
Lanciamo questa giornata perché la questione è abbastanza seria.

Già, perché il problema sempre di più non è la disabilità e tutto ciò che implica, ma direttamente le persone disabili. Colpisce, giusto per fare un esempio, che diversi stati della civilissima Europa, si siano dati l’obiettivo di eliminare la Sindrome di Down dai loro territori. Come? Semplice: diagnosi prenatali (mai sicure al 100%) a tappeto e ricorso all’aborto altrettanto a tappeto.

E dove le coscienze provano ad urlare la follia della strada intrapresa, in mille modi le si mettono a tacere: è meglio così – che vita avrebbe – e quando voi non ci sarete più? – siete una famiglia così bella, non createvi problemi – è un atto d’amore risparmiargli una vita come poi avrebbe – con quello che ha, come potrebbe essere felice?
 
Tanti argomenti malamente riassunti, ma che nascondono tutti, ho già avuto modo di parlarne proprio su questo sito, il vero problema: le disabilità fisiche e mentali raccontano in modo inequivocabile ciò che più ci spaventa.

L’uomo in quanto tale, ha come compagno di viaggio il limite, non l’onnipotenza.

E alla parola limite associamo immediatamente tante cose che ci fanno paura e che riteniamo minino alla base la possibilità di una vita felice e realizzata.
 
Le persone disabili, in un cortocircuito mentale che prima o poi sarà sano curare, ci buttano in faccia i nostri peggiori incubi, e allora eliminandole, non vedendole, esiliandole nei ghetti dell’indifferenza, ci si illude di tornare al sogno di una vita “senza limiti”, dove tutto è lecito e possibile, perfetto.

Se poi la vita ci racconterà che non siamo “dei” immortali, ma “idoli” mortiferi, pazienza, ci penseremo a tempo debito (ma si avranno gli strumenti per farlo?), intanto lasciateci “cogliere l’attimo”.

Ma la disabilità ci racconta questo? Perché invece di credere a certe bufale, semplicemente non ci si prende il tempo di vedere, sperimentare, conoscere e capire? Sarebbe semplice e, dopo, tutto evidentissimo.
 
Chi fa i conti con la disabilità certamente affronta dimensioni di fatica spesso enormi, che se lasciate sole e a se stesse rischiano di schiacciare e disumanizzare, questo è sicuro.

Ma la storia che andrebbe raccontata ogni giorno e non solo il 3 Dicembre, dice molto altro. Racconta della possibilità che il limite possa essere assunto, amato, trasfigurato, umanizzato. E quando questo accade, quando la società attraverso la condivisione del limite si scopre comunità, ecco che nessun limite può più schiacciare il singolo.
 
Istituiamo allora il 4 Dicembre per aiutare ogni uomo e donna a scoprire la propria disabilità, che c’è, sempre. Perché se anche sei medaglia d’oro olimpica di triathlon, ma poi paghi una prostituta schiava del racket per tradire tua moglie, sei disabile.

Perché se hai tre lauree e insegni alla Bocconi, ma paghi la colf in nero, sei disabile.

Perché se hai un’industria che ti dà profitti da capogiro, ma avveleni l’aria e fai ammalare di cancro la gente, sei disabile.

Perché se sei potente, riverito e omaggiato, ma sputi sui diritti delle persone, sei disabile.

Se insulti l’arbitro che non ha dato un rigore alla squadra di tuo figlio, sei disabile.

Se parcheggi l’auto nel posto riservato ai portatori di handicap, certo sei disabile, ma non per questo sei autorizzato a farlo.

Se maltratti gli animali, sei disabile.

Se mandi SMS mentre guidi, sei disabile.

Se non guardi nemmeno in faccia chi ti saluta, sei disabile.

Se non sai usare le parole tanto care a Papa Francesco “grazie”, “scusa”, “per favore”, sei disabile.
 
Abbiamo urgente bisogno di guardare in faccia le nostre disabilità, ma non per deprimerci, ma per fare in modo che avvenga in noi ciò che molto spesso e molto bene accade nel mondo di chi la disabilità ha deciso di non fuggirla, occultarla o eliminarla, ma di accompagnarla con amore.
 
Mentre penso a queste cose, mi passa di fianco trotterellando Sara, mia figlia di sette anni con sindrome di Down. A bruciapelo le chiedo: “Sara, secondo te quanto sono disabile io?”

Mi guarda perplessa, mi si arrampica in braccio, mi abbraccia e mi guarda seria: “Tranquillo, io ti amo” e mentre corre via aggiunge “Per sempre, papà”.

In dieci secondi ha fatto quello che probabilmente io non sono riuscito a dire.

Sono davvero diversamente abili.

Diacono Marco Ruggeri




Agiografia del prete cremonese fondatore delle Figlie dell’Oratorio beatificato il 1° novembre del 1975 dal beato Papa Paolo VI

Vincenzo Grossi nasce il 9 marzo 1845 a Pizzighettone (Cremona) da una umile famiglia. È il penultimo dei dieci figli (tre muoiono in tenera età) di Baldassarre Grossi e Maddalena Cappellini, proprietari di un mulino. È subito battezzato nella chiesa parrocchiale di San Bassiano, a Pizzighettone.

Dinanzi alla richiesta di Vincenzo di diventare sacerdote non c’è opposizione da parte dei familiari, che si limitano a fargli presente che possono ancora aver bisogno di lui; c’è già un altro figlio – Giuseppe – che studia da prete, non possono permettersi le spese per entrambi. Così, mentre lavora con il padre nella consegna dei sacchi di farina, il ragazzo si ritaglia del tempo per studiare privatamente le materie del ginnasio sotto la guida del parroco.

A diciannove anni, nel 1864, entra in Seminario: è ordinato sacerdote il 22 maggio 1869. Da allora tutta la sua attività pastorale si svolge in diverse parrocchie della diocesi.

I suoi primi incarichi sono nelle parrocchie di S. Rocco in Gera di Pizzighettone e a Sesto Cremonese, seguiti, nel 1871, da quello come economo spirituale a Ca’ dei Soresini.

Nel 1873 è nominato parroco di Regona di Pizzighettone. La popolazione del luogo era da tempo lontana dalla pratica religiosa, ma don Vincenzo vi si dedica con tanta cura che dopo pochi anni trasforma il piccolo borgo in un “conventino”, come appunto viene definito dai suoi confratelli.

Don Vincenzo spende tutta la sua vita nel ministero pastorale: animazione delle comunità a lui affidate, predicazione di missioni al popolo, formazione spirituale delle coscienze, attenzione ai poveri, educazione dei fanciulli e dei giovani.

Per le ragazze, in particolare, don Grossi ha una sincera preoccupazione. Dà il nome di “oratorio” – sulle orme di don Giovanni Bosco a Torino – al piccolo locale che è riuscito a ricavare nella sua canonica, perché le sue giovani parrocchiane possano ritrovarsi. Vivendo in continuo contatto con la popolazione delle campagne, si rende conto che la gioventù, soprattutto femminile, cresce in situazioni molto fragili e complicate. Inizia, quindi, a radunare alcune delle sue giovani e ad avviarle alla vita comune tra loro.

Nel 1883 il vescovo Geremia Bonomelli lo destina come parroco a Vicobellignano, dove ha preso piede il protestantesimo metodista. Da subito, mostra gran carità e apertura: lo stesso pastore va più volte ad ascoltare le sue prediche quaresimali e le famiglie protestanti mandano i loro figli alla scuola parrocchiale.

La nuova destinazione, che lo allontana da Regona, non fa desistere don Grossi dal progetto della nuova comunità femminile. Il nome scelto è quello di “Figlie dell’Oratorio” per richiamarle a un modello spirituale ben preciso: la letizia spirituale di san Filippo Neri, fondatore della Congregazione dell’Oratorio. Non è previsto un abito definito, in modo da poter avvicinare meglio le giovani.

Le prime basi per il nascente Istituto sono poste nel 1885 a Pizzighettone. L’approvazione diocesana arriva il 20 giugno 1901 con l’assenso del vescovo Bonomelli. Per garantire la formazione scolastica di quelle tra loro che avrebbero dovuto dedicarsi all’insegnamento, sceglie la città di Lodi, dove si decide di acquistare una struttura: l’attuale Casa madre dell’Istituto.

Nel 1917, mentre si trova a Lodi per sistemare alcune faccende urgenti per l’Istituto, don Grossi si sente male. Vuole tornare a Vicobellignano dove, nei primi giorni di novembre, le sue condizioni si aggravano. Fatica a parlare, pronuncia solo pochissime parole: «La via è aperta: bisogna andare». Alle 21.45 del 7 novembre, a 72 anni, don Vincenzo Grossi rende l’anima a Dio.

La fama di santità di don Grossi non viene meno, tanto da domandare l’apertura della sua causa di beatificazione. Nel 1969 è dichiarato Venerabile. La sua beatificazione è celebrata il 1° novembre dell’Anno Santo 1975 a Roma da Papa Paolo VI, che lo definisce «apostolo della gioventù» ed «esempio sereno e suadente per i sacerdoti direttamente impegnati nella cura d’anime». «Nella solidità delle sue generose virtù, nascoste nel silenzio, purificate dal sacrificio e dalla mortificazione, raffinate dall’obbedienza, egli ha lasciato un solco profondo nella Chiesa, che oggi lo propone a modello e lo prega come intercessore».

Papa Francesco, definendo miracolosa la guarigione di una bambina avvenuta per intercessione del Beato, il 27 giugno 2015, nella sala del Concistoro del Palazzo apostolico vaticano, presiede il Concistoro ordinario pubblico per la canonizzazione del beato Vincenzo Grossi, oltre che della beata Maria dell’Immacolata Concezione (superiora generale della Congregazione delle Sorelle della Compagnia della Croce) e dei beati Ludovico Martin e Maria Azelia Guérin (coniugi e genitori). La canonizzazione il 18 ottobre 2015, Giornata missionaria mondiale, nel corso della XIV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi.

Il fatto miracoloso riguarda una bambina di due mesi di Pizzighettone affetta da una grave malattia ematica: una anemia eritropoietina di tipo 2. Elemento risolutivo può essere solo il trapianto di midollo, ma nessun familiare risulta compatibile. Mentre la bambina è sostenuta con trasfusioni e trattamenti palliativi, una suora delle Figlie dell’Oratorio invita a pregare il beato Vincenzo. I familiari iniziano a pregare insistentemente e dopo un certo periodo la bambina risulta guarita. A 25 anni e sta bene: quella patologia non si è più manifestata.

I resti mortali di san Vincenzo Grossi, già traslati nel 1944 dal cimitero di Vicobellignano a quello di Lodi, nel 1947 sono collocati nella cappella della Casa madre delle Figlie dell’Oratorio, a Lodi, dove tuttora vi riposano.

 

Preghiera al beato Vincenzo

Cuore adorabile di Gesù,
modello dei cuori sacerdotali,
che nella tua ineffabile Provvidenza
hai fatto del beato Vincenzo Grossi
un parroco operoso ed esemplare,
e lo hai scelto a fondare
una nuova Famiglia religiosa
per l’educazione
della gioventù femminile,
noi ti preghiamo
affinché possiamo imitarlo
nelle sue virtù
e ricevere, per sua intercessione,
le grazie di cui abbiamo bisogno.