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Intorno all’opera/21 – Lo sguardo dell’Agnello

A gennaio si è concluso parte del restauro del Polittico de L’Agnello Mistico di Jan van Eyck e Hubert van Eyck, realizzato nel 1432, uno dei grandi capolavori della storia dell’arte mondiale. Si trova a Gent, nella Cattedrale di San Bovone.

Un’opera monumentale, il più imponente dei polittici realizzati nelle fiandre durante il quindicesimo secolo: misura tre metri e cinquanta in altezza, e quattro e settanta in larghezza, quando è aperta. Infatti il polittico (24 tavole in quercia) è dipinto su entrambi i lati ed era stato concepito per essere chiuso o aperto (e quindi per mostrare certi scomparti piuttosto che altri) secondo le occasioni.

Quando il polittico è aperto, presenta dodici tavole, suddivise su due registri. Un concentrato di arte, teologia,  bellezza che riassume l’intera storia della Redenzione. Il centro catalizzatore è l’Agnello, elaborato dal libro dell’Apocalisse, posto al centro su di un altare in un giardino lussureggiante, che misura solo 12 per 12 centimetri. Durante le delicate fasi del restauro, durato tre anni, si è scoperto il vero “sguardo” dell’Agnello coperto da posteriori ridipinture: uno sguardo umano, penetrante, scrutatore. Gli occhi sono posti frontalmente e non lateralmente come nei ritocchi successivi che diedero all’agnello un’apparenza più naturale, secondo il gusto del tempo.

Su tutto quello che è accaduto in questi mesi in cui si è sofferto, pianto, scritto, riflettuto, su tutto e su tutti si è posato lo sguardo di questo Agnello.

«Chi è degno di aprire il libro e sciogliere i sigilli?».
«Io piangevo molto perché nessuno ne era degno» scrive il veggente Giovanni.

Alle lacrime versate nell’incapacità di risolvere gli enigmi del mondo c’è soltanto una risposta: l’Agnello immolato e Vivente. Il Primo e l’Ultimo. Da quando Cristo ha pronunciato dalla croce il «tutto è compiuto» noi siamo sotto questo sguardo. Temporaneamente ciò che abbiamo vissuto abbraccia il periodo quaresimale e quello pasquale, e ora l’ordinarietà del quotidiano. Nessuna “profezia” da fine del mondo, sono dolori di un parto che dura, di un parto in atto e questa volta ne siamo stati coinvolti anche noi, come territorio, come popolo, nella nostra carne. Come tutta l’umanità. Almeno in questo saremo capaci di riconoscerci fratelli?

(Lascio a voi questa riflessione, giuntami da una carissima amica, Monaca Benedettina, Madre Cristina, con la quale ho condiviso gli anni del liceo).

a cura di don Gianluca Gaiardi
incaricato diocesano per i Beni culturali




Intorno all’opera/20 – Genovesino, l’altare di San Rocco

La prossima settimana i vescovi delle dieci diocesi lombarde saranno impegnati negli annuali esercizi spirituali, credo sia bello accompagnarli con la nostra preghiera, oltre che con il nostro affetto. Pastori non risparmiati dalle prove della vita e chiamati  a guidare le Chiese del territorio lombardo, messo così duramente alla prova dalla pandemia.

L’opera scelta per questa settimana campeggia sulla copertina del libretto della liturgia che accompagna i loro esercizi spirituali. È una piccola tela che guarnisce l’imponente ancona dell’altare nel transetto nord della nostra Cattedrale, dedicato al santo taumaturgo Rocco. Opera del Genovesino, realizzata come ex voto dopo la peste del 1630. Al centro campeggia la più antica statua di S. Rocco, attorno l’artista ligure – ma cremonese d’adozione – incastona nell’ancona dorata dieci tele realizzate intorno al 1646 e che raccontano i principali episodi della vita del santo, tra questi la segnatura del cardinale. Si narra infatti che S. Rocco all’arrivo a Roma si sia recato all’ospedale del Santo Spirito, ed è qui che sarebbe avvenuto il più famoso miracolo di San Rocco: la guarigione di un cardinale, liberato dalla peste dopo aver tracciato sulla sua fronte il segno di Croce.

Mi piace pensare che anche i Pastori hanno bisogno delle preghiere e dei gesti di vicinanza dei fedeli, come ben ci ricordano le parole del vescovo di Pinerolo mons. Derio Olivero, che raccontando della sua dura prova vissuta in ospedale a causa del covid, così dice: «È stata un’esperienza davvero dura e ho camminato due o tre giorni con la morte, lucidamente con la morte. Però ne sono fuori e quindi sono grato, felice.
La cosa più bella che voglio dire è che ho sentito un’enorme vicinanza della gente, di tutta la mia diocesi e dei miei amici. Quando si è di fronte alla morte mi sono reso conto di questo: sono stato due giorni, non so, due giorni e mezzo lucidamente con la certezza di poter morire e mi sono reso conto che due cose contano. Due: la fiducia in Dio e le relazioni. La fiducia in Dio non mi ha abbandonato. Anzi, grazie a quella, sono stato sereno dal primo giorno fino ad oggi. E le relazioni, gli affetti. Tutto il resto crolla. Io credo ai segni dei tempi. Ovviamente questa malattia non è stata mandata da Dio, ma anche in questa pandemia Dio parla e dobbiamo capire che cosa ci dice».

Come ci chiede la lettera agli Ebrei: «Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno annunciato la parola di Dio» (13,7) preghiamo per i nostri vescovi, loro pregano per noi.

a cura di don Gianluca Gaiardi
incaricato diocesano per i Beni Culturali




Intorno all’opera/19 – La Madonna dei campi di Calvenzano

Serena Benelli è una giovane storica dell’arte, che sul suo profilo facebook ha da poco promosso la raccolta voti per la lodevole iniziativa del Fai (Fondo Ambiente Italiano) del piccolo santuario campestre di Calvenzano, in provincia di Bergamo, ma diocesi di Cremona.

Così scrive: «La decorazione della chiesetta è dedicata a Maria e rivela un’attenzione particolare per la figura della donna. Sulla controfacciata è rappresentata la Strage degli Innocenti: un episodio drammatico, in cui la figura della donna è protagonista e vittima.

Perché per me è un luogo del cuore? L’autore del ciclo pittorico, un cremasco, adopera le sue doti artistiche per esaltare la figura della donna: le sue virtù e la sua forza. Vota la chiesetta dei campi di Calvenzano! Aiutaci a illuminarla, non ti costa nulla!».

Sulla via Misano troviamo l’Oratorio della Beata Vergine Assunta detta anche Madonna dei campi: la costruzione è in cotto con un bel portico; la facciata risale al XVI secolo ed il campanile al Trecento o agli inizi del Quattrocento; l’interno è formato da una sola navata con volta ed è stato interamente affrescato da Tommaso Pombioli nel 1623. Restaurata nella parte esterna dal gruppo locale degli Alpini che ultimamente ha promosso anche il restauro degli affreschi.

Il bello di una piccola comunità coesa è quello che tutti fanno la loro parte, mettono un piccolo tassello per il bene comune: il parroco rende disponibile il luogo, il sindaco si mette a disposizione per promuovere, i volontari si impegnano fino in fondo, soprattutto gli alpini. Alcuni alunni di tutti gli indirizzi del Centro Salesiano Don Bosco di Treviglio (Liceo classico, scientifico, Istituto Tecnico Costruzioni, Ambiente e Territorio, Istituto Professionale), coordinati dai loro docenti, hanno collaborato per una ricerca storica e di rilievo geometrico e metrico, per uno studio dell’edificio.

Le difficoltà, quelle di sempre: convincere i diffidenti, superare le perplessità, reperire fondi. Qui un obiettivo in più: raccogliere almeno 2000 voti in formato digitale per passare la prima fase del concorso e quindi poter finanziare un progetto di tutela e valorizzazione.

Ognuno di noi è emotivamente legato a luoghi unici che rappresentano una parte importante della nostra vita e che vorremmo fossero protetti per sempre. Facciamolo diventare anche per noi un luogo del cuore.

a cura di don Gianluca Gaiardi
(incaricato diocesano per i Beni Culturali)




Intorno all’opera/18 – Sacro Cuore (installazione)

Per la Solennità del Cuore di Gesù prendo in prestito le parole di don Giuliano Zanchi, sacerdote, saggista, scrittore di un libro proprio sulla devozione al Sacro Cuore, per raccontare, anche in questo periodo, l’arte delle installazioni. Non ne abbiamo ancora parlato in questa rubrica, eppure vanno così di moda in questi anni.

«Chi mi conosce bene sa che per indole non sono molto incline a certe espressioni della vecchia religione devota. Non si tratta di un dispregio a prescindere. Semplicemente non riesco a farne la forma adeguata del mio senso religioso. Me ne interesso per ragioni di studio, specie quando esse hanno a che fare con le immagini, come traccia di quella rete simbolica che ancora per i nostri nonni era un ossigeno da respirare realmente. Lavorando in un museo ho spesso maneggiato degli oggetti, un tempo legati a una intensa trama di forze spirituali, che ora ci appaiono nel loro mero significato estetico, come quelle piccole tavolette dipinte con ingenuità o quelle placche di forma corporea con cui gente anonima implorava o ringraziava Dio, o più spesso la Madonna, per via di una rischiosa calamità personale. Le osservo con ammirazione mista a disincanto. Eppure, uscito senza troppe conseguenze da una settimana di “influenza” e reduce da quaranta giorni di assistenza paramedica ai miei familiari, non ho resistito dal conservare la mia mascherina verdognola, una confezione di tachipirina, dei guanti di lattice e il plico di foglietti su cui in quelle settimane ho annotato dei pensieri, per infilare tutto in un sacchetto di plastica trasparente che ho appeso al muro di casa come un ex voto dopo questi giorni difficili. Non ho pensato di dover ringraziare Dio per la guarigione di chi mi sta a cuore (significherebbe incolparlo indirettamente della morte di altri). Tuttavia ho sentito che non potevo riprendere salute intascandola semplicemente senza alcun senso di debito, come si raccoglie un mazzo di chiavi che ci è caduto dalle mani, ma dare un nome a quella non-ovvietà cui dobbiamo il nostro essere ancora qui. Qualunque esso sia, è per grazia ricevuta».

(in Lettere dalla tempesta, pubblicato alla comunità di Longuelo per finanziare il fondo solidarietà del quartiere)

a cura di don Gianluca Gaiardi
(incaricato diocesano per i Beni Culturali)




Intorno all’opera/17 – Il miracolo di Bolsena

La disputa del Santissimo Sacramento è il dipinto di Raffaello più famoso, assieme alla Scuola di Atene che lo fronteggia, ma per la solennità del Corpus Domini credo che il soggetto più appropriato tra quelli raffigurati dal grande maestro sia da cercare in un’altra sala del Palazzo Apostolico, quella di Eliodoro.

Una parete consacrata all’Eucarestia, la permanente presenza di Cristo nella storia sotto i segni del pane e del vino, raffigurata nella cosiddetta Messa (o Miracolo) di Bolsena. Nel 1263 un prete boemo, in pellegrinaggio da Praga a Roma coi suoi fedeli, aveva fatto tappa in questa cittadina del Viterbese celebrando la Messa sulla tomba della martire Cristina. Attanagliato dal dubbio, e in crisi di fede, quando pronunciava le parole della consacrazione si era accorto, sconcertato, che l’ostia diventa sanguinante e macchiava il corporale, cioè il lino su cui erano posti il pane e i calice del vino.

Ancor oggi chi visita Bolsena ed entra nella chiesa eretta dal cardinal Giovanni de ‘Medici, il futuro papa Leone X, scendendo nella grotta sottostante ove si diramano le catacombe di Santa Caterina, incontra l’altare del miracolo. Il corporale intriso di sangue era stato portato processionalmente a Orvieto e l’11 agosto 1264 il papa Urbano IV aveva istituito la solennità del Corpus Domini con la bolla Transiturus e aveva dato il via all’erezione del duomo di quella città, uno dei capolavori in assoluto del gotico italiano.

Un prete dalla fede vacillante e un papa passato alla storia per il suo impegno di mecenate e condottiero, inginocchiati uno di fronte all’altro, tra di loro un pezzo di pane azzimo, insapore, intriso di sangue. Questo il mistero che celebriamo con la Solennità del Corpus Domini, anche quando la fede dei preti non è granitica, anche quando la storia della Chiesa passa dalle mani di papi sporche di sangue di altri, anche quando in quelle stanze si affollavano migliaia di visitatori (ma sono sicuro ritorneranno ad essere altrettanti nel futuro) che magari non hanno colto fino in fondo il significato della transustanziazione. Al nostro Dio non importa in che mani  mettersi, ma lo ha fatto: si è messo nelle nostre mani di peccatori.




Intorno all’opera/15 -La Pentecoste di Giulio Campi

Entrare e non saper dove posare lo sguardo, tanta è la foga nel raccontare, nonostante il rigore della maniera che in questa chiesa si contrappone al Rinascimento della cattedrale. Posta appena fuori Cremona, una volta monastero, ed oggi ritornato luogo claustrale con l’arrivo delle monache domenicane, S. Sigismondo è uno scrigno di fantasiosa decorazione.

In questo luogo, ma non ancora in questa chiesa, si sposarono Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti, il che conferì al monastero quell’importanza che gli permise, a casato ormai evoluto, di rimanere luogo emblematico, e di dotarsi di una di quelle architetture auliche che avrebbero riassunto i migliori dettami del Rinascimento in corso.

Merita una particolare attenzione il grande affresco cinquecentesco di Giulio Campi, che rappresenta la Pentecoste, dipinto sulla volta della prima campata della navata, appena varcata la soglia del portone principale. Tra svolazzi delle tuniche, le geometrie dei cerchi concentrici e l’ardita prospettiva, un bizzarro capolavoro che ha già assimilato tutta la follia ritmica del Manierismo agli esordi. L’imbuto prospettico ci svela un cielo che ci fa ricordare il soffitto della camera degli sposi del palazzo Ducale di Mantova, realizzato circa cento anni prima dal Mantegna. Le fiammelle sembrano lapidei infuocati che una eruzione vulcanica fa cadere dal cielo con una velocità potente e una visione scientifica moderna.

Un cenacolo innovativo, una Pentecoste che non può lasciarci indifferenti, perché ci coinvolge, è il primo avvenimento che ci accade mentre varchiamo la soglia della Chiesa, anche di questa chiesa. Posta sopra le nostre teste sembra metterci al centro. Straordinario questo: il dono dello Spirito Santo è anche per noi, non ci possiamo sottrarre, ci coinvolge e ci rende protagonisti, pure noi come i dodici con lo sguardo verso l’alto. Le meteore che ci piombano addosso sono più del numero degli apostoli, una sarà dunque per noi.

don Gianluca Gaiardi

incaricato diocesano per i Beni culturali




Intorno all’opera/16 – La Trinità della Pieve di Soncino

Sopra l’antico fonte battesimale, c’è un affresco degli inizi del XVI secolo raffigurante la Santissima Trinità. La particolarità iconografica con le Tre Persone assolutamente identiche, secondo la più diffusa rappresentazione medioevale in luogo di quella più recente del Padre, del Figlio e della Colomba dello Spirito Santo, indussero l’autorità ecclesiastica nell’età della Controriforma a far coprire l’immagine, che venne ritrovata solo nel 1843 durante i lavori di rifacimento della cappella della Trinità.

Benché anonimo, l’autore di questo affresco – peraltro molto ridipinto – dovrebbe essere un pittore soncinese degli inizi del Cinquecento e potrebbe trattarsi di Alberto Scanzi o del giovane figlio Francesco, secondo le attribuzioni del prof. Mario Marubbi.
Infatti la più recente e moderna iconografia della Trinità, che ha nell’affresco del Masaccio nella cattedrale fiorentina un mirabile esempio, mette al centro della nostra riflessione la distinzione dei ruoli del Padre, del Figlio e del Paraclito, mentre la più antica iconografia, che possiamo ritrovare nei lacerti ritrovati nella chiesa di S. Maria maggiore in città alta a Bergamo o nella sinopia del monastero milanese di Viboldone, come in tante altre chiese italiane ed europee, mette al centro della meditazione il tema teologico delle tre persone uguali ma distinte.

Sedute allo stesso tavolo davanti a tre calici, tengono con la mano sinistra un libro, mentre con l’altra benedicono. Certo l’imprudente restauro degli anni ottanta dello scorso secolo ha contribuito a far perdere bellezza e plasticità, ma il dipinto introduce un tema a noi caro che ci sembra consegnato solo all’iconografia delle icone ortodosse che tanto piacciono ultimamente e che invadono la nostra spiritualità contemporanea. Basti pensare a quella famosissima di Rublev, dove i tre Signore dialogano tra loro proprio davanti a un’unica coppa.

Nell’antica Pieve di Soncino, nella nostra diocesi, contrastando le antiche eresie come quella ariana, dipingevano sopra il fonte la Trinità, perché nel sacramento siamo battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, tre persone uguali, ma distinte.

don Gianluca Gaiardi

incaricato diocesano per i Beni culturali




Intorno all’opera/14 – La Madonna di Caravaggio

A restauro non ancora ultimato sono evidenti le cicatrici che il tempo ha creato, soprattutto quella lasciata dalla candela accesa troppo vicino alla tela, senza rispettare il doveroso “distanziamento sociale” e che ha quasi prolungato il piccolo ramoscello fiorito al centro della composizione nel rivolo d’acqua che separa le due donne coinvolte, il più evidente segno iconografico che identifica la scena rappresentata. Altre invece sono state rimosse, come le piccole stelle poste a corona sul capo della Signora, che impropriamente erano state incollate come un rabberciato patchwork.

La tela raccoglie diversi aneddoti: innanzitutto la sua sconosciuta provenienza, difficile da chiarire, certo è una delle poche rappresentazioni presenti nella città di Cremona, forse commissionata come pala d’altare di una piccola chiesa scomparsa o ancora esistente alle spalle della cattedrale. Passata di mano in mano fino a giungere in proprietà ai Saveriani di via Bonomelli, padri missionari così provati e falcidiati in questo  periodo dalla pandemia soprattutto nella loro casa generalizia di Parma, e dagli stessi regalata alla nostra Cattedrale prima della definitiva chiusura della loro casa cremonese.

Oggi è sottoposta al restauro sostenuto dalla raccolta fondi ottenuta dall’asta delle maglie usate dai calciatori grigiorossi nel Christmas Match organizzata dall’U.S. Cremonese, iniziativa che ha saputo fare del bene alla cultura attraverso lo  sport.

I restauri, interrotti a causa del Covid, sono stati ripresi, ritornerà così al suo originale splendore, o meglio visto che nulla potrà essere come prima, il dipinto, probabile opera dal grande artista cremonese del settecento Angelo Massarotti, conserverà la patina del tempo che trasforma e modifica, aggiunge e toglie, le cicatrici rimangono, anche se nascoste da un oculato restauro. Tornerà ad essere ammirata, nella sua nuova collocazione. Sarà la prima tela che i visitatori del Museo Diocesano potranno osservare, starà all’ingresso, nella prima sala, ad accogliere, a raccontare. Apparirà, già apparirà, come a Giannetta, la contadina che l’aveva invocata, perché apparirà e aprirà per prima mostrandosi patrona della diocesi: Madonna del Fonte presso Caravaggio.

don Gianluca Gaiardi

incaricato diocesano per i Beni culturali




Intorno all’opera/13 – Stanze della segnatura apostolica: l’incendio di Borgo

Ancora Raffaello, in questo anno a lui dedicato. Nelle sontuose stanze della Segnatura apostolica, dove i famosi affreschi della “scuola d’Atene” o della “Disputa intorno al Sacramento” la fanno da padrone, l’artista urbinate raffigura il drammatico incendio di Borgo nella città di Roma.

Sullo sfondo si intravede l’antica basilica Costantiniana di S. Pietro in Vaticano, che di lì a poco verrà smantellata per lascerà il posto all’attuale facciata del Maderno. Sul lato sinistro dell’incendio una scena che richiama in modo per nulla velato l’episodio di Enea che scappando dalla città di Troia in fiamme, porta in salvo sulle sue spalle il padre Anchise, mentre tiene per mano il giovane figlio Ascanio, che accenderà una nuova vita di Roma.

«L’Italia vede decimata la generazione anziana, punto di riferimento per i giovani e per gli affetti».

Le parole dette in questi giorni dal presidente della Repubblica italiana, in maniera solenne e commovente, sembrano così voler far scudo contro quell’aberrante e diffusa convinzione che le morti così numerose non siano state poi così importanti perché riguardavano i vecchi, per di più già malati. Il Capo dello Stato, al contrario, ci ricorda quale patrimonio siano gli anziani per i bambini, come le vecchie generazioni siano indispensabili per le nuove.

La civiltà si fonda e nasce quando Enea in fuga dall’incendio, porta con se il vecchio padre sulle spalle e per mano il giovane figlio. La pietà, che è la sua qualità esistenziale e la sua qualità sociale, lo spinge nell’aiutare, includere tutti, curare tutti, anche a scapito della propria sopravvivenza, del proprio potere.

Noi, nell’agenda delle cose che dobbiamo mettere in campo quando finirà la pandemia e vorremmo fare il mondo nuovo, dovremmo mettere in campo la pietà. Fin da ora, in quanto già ora abbiamo due problemi. Il primo è quello di non morire, ma il secondo è quello di vivere civili.

don Gianluca Gaiardi

incaricato diocesano per i Beni Culturali




Intorno all’opera/12 – Tersicore e Ganimede di Palazzo Mina-Bolzesi ostaggi alle Gallerie d’Italia

Due ragazzi cremonesi ostaggi a Milano a causa del covid, nonostante la fase 2 sia già iniziata e l’incontro con i congiunti e gli affetti stabili siano permessi. Le due sculture che la nostra diocesi ha prestata alle Gallerie d’Italia per la mostra “Canova – Thorvaldsen. La nascita della scultura moderna”, sospesa a causa della pandemia, anche il suo smantellamento e la riconsegna delle opere ai prestatori non è ancora stata possibile.

Così si protrae il loro soggiorno milanese. Queste due statue presenti nella sala principale di Palazzo Mina Bolzesi, proprietà del Seminario Vescovile, non rappresentano personaggi biblici, ma mitologici: “Tersicore danzante” di Gaetano Monti e “Ganimede con l’aquila di Giove” di Camillo Pacetti, entrambe allievi dei due grandi maestri.
La mostra Canova-Thorvaldsen. La nascita della scultura moderna rappresenta, sia per l’importanza e la bellezza delle opere esposte, che per la grande rilevanza scientifica, una straordinaria occasione di conoscenza della scultura tra Sette e Ottocento.
Un periodo in cui quest’arte ha conosciuto una decisiva trasformazione grazie al genio dell’italiano Antonio Canova (Possagno 1757 – Venezia 1822) e del danese Bertel Thorvaldsen (Copenaghen 1770 – 1844), protagonisti e rivali sulla scena ancora grandiosa di una Roma cosmopolita dove hanno avuto modo di confrontarsi con i valori universali della classicità e dell’antico. Furono infatti riconosciuti e celebrati come i “classici moderni”, capaci di trasformare l’idea stessa della scultura e la sua tecnica, creando capolavori immortali che sono diventati, anche perché continuamente riprodotti, amati e popolari in tutto il mondo.
La possibilità di radunare le opere più significative ha permesso di allestire un vero Olimpo di marmo, emblema di una civiltà che guardava all’antico, ma che aspirava nello stesso tempo alla modernità. Canova è stato l’artista rivoluzionario, capace di assegnare alla scultura il primato sulle altre arti, attraverso il confronto e il superamento degli antichi. Thorvaldsen, studiando l’opera e la strategia del rivale, si è ispirato a un’idea più austera e nostalgica della classicità, avviando una nuova epoca dell’arte nordica dominata dal fascino intramontabile del mondo mediterraneo.


Canova nel 1802 viene nominato da papa Pio VII Soprintendente Generale del patrimonio archeologico e artistico dello stato Vaticano e direttore dei Musei. Uomo colto, oltre che scultore, profondamente cattolico, potremmo definirlo padre della Soprintendenza come la conosciamo noi oggi, prima della istituzionalizzazione francese.
Ritornando ai nostri due giovani, mi hanno fatto pensare ai tanti giovani che nelle loro case si sono trovati ostaggi a causa del Covid. A loro l’omaggio per aver resistito tra le pareti di una stanza, che da sempre appaiono strette ai giovani di ogni epoca, costringendo la loro energia, capaci di sapersi riadattare, danzando la vita come fa la ragazza e assorti in amori proibiti come il giovane coppiere.

don Gianluca Gaiardi

Incaricato diocesano per i Beni culturali