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Barnabiti, un secolo di missione in Afghanistan

Il 26 agosto scorso, dopo giorni concitati e drammatici, padre Gianni Scalese è rientrato dall’Afghanistan insieme alle suore della Congregazione di Madre Teresa e ad alcuni bambini orfani. Barnabita, cappellanno della missione “sui iuris” voluta da Giovanni Paolo II nel Paese asiatico presso l’ambasciata italiana, padre Scalese è l’ultimo di una lunga serie di sacerdoti barnabiti che per cento anni hanno accompagnato la minuscola ma preziosissima presenza cristiana in terra afghana.

Insieme a padre Giovanni Villa, già superiore generale dei Barnabiti oggi di stanza a Cremona presso comunità di San Luca, padre Scalese ha raccontato la sua esperienza nella serata di giovedì 21 ottobre presso il Centro pastorale diocesano di Cremona nell’incontro promosso dal gruppo missionario della parrocchia cittadina di Sant’Abbondio e moderato da Daniela Negri.

«L’Afghanistan diventa indipendente nel 1919 e nel 1921, con un Trattato stipulato con lo Stato italiano, viene resa possibile la costruzione di un luogo di culto per cattolici stranieri. Certo, non era possibile evangelizzare, ma solo servire chi per ragioni commerciali, politiche e diplomatiche visitava il Paese. La presenza barnabita inizia così, con una cappella cattolica all’interno dell’ambasciata italiana. Dal 1933 a oggi, otto sacerdoti barnabiti si sono succeduti e padre Scalese è stato l’ultimo», ha spiegato padre Villa introducendo l’incontro. «Cremona è stata una delle città più interessate alla nostra presenza in Afghanistan – ha quindi sottolineato – perché negli anni Novanta qui a Cremona c’era uno dei sacerdoti che è stato cappellano laggiù per 25 anni, padre Angelo Panigati».

La parola è poi passata a padre Scalese che, in collegamento da Roma, ha ricordato come segni di una presenza cristiana nel Paese sono state anche le Suore di Madre Teresa di Calcutta, quelle del centro per i bambini di Kabul, i Gesuiti indiani e le Piccole Sorelle di Charles de Foucauld, arrivate negli anni Cinquanta. Tutti loro si sono dovuti confrontare con le difficoltà di vivere in una nazione dove l’islam è religione di Stato e la conversione ad altre fedi è rato: «Non è stato possibile negli ultimi tempi svolgere un servizio pastorale esteso al contatto con la gente, e così azioni di promozione sociale hanno rappresentato l’unica forma possibile di missione».

Padre Scalese ha ripreso poi il titolo del messaggio di Papa Francesco per la Giornata mondiale delle missioni: «Non è semplice annunciare in Afghanistan quello che “abbiamo visto e ascoltato”, perché lì siamo costretti a tacere. Ma dopo la presa del potere dei talebani, abbiamo sperimentato la protezione divina e della Madonna. Il 13 ottobre del 2017, al termine del centenario di Fatima, ci siamo consacrati come missione «sui iuris» al Cuore immacolato di Maria. E non abbiamo voluto consacrare solo noi stessi e la missione, ma anche l’Afghanistan. Perché consacrare un Paese al 99 per cento islamico? Perché, la storia lo insegna, questo ha risvolti anche geopolitici: pensate a quella che fece Giovanni Paolo II, cui seguì il crollo dell’Urss. Noi abbiamo sperimentato la protezione della Madonna negli ultimi giorni trascorsi a Kabul: nessuno di noi si è fatto un graffio nonostante gli attentati e le tensioni. Io penso che questa storia, iniziata cento anni fa, potrà continuare, perché ho conosciuto tanti afghani affascinati dal cristianesimo. Prego e spero che la vita della missione presto o tardi possa riprendere al servizio di un popolo che non merita di vivere nella guerra».