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Ascoltando un filosofo, appunti a margine di una serata al Ponchielli

Nella serata di martedì 6 marzo il teatro Ponchielli di Cremona è stato cornice incantevole di un appuntamento di punta. Ospite il professor Umberto Galimberti, filosofo di professione, autore di fama di numerose pubblicazioni di carattere storiografico, ma soprattutto di interpretazione di alcune categorie del pensare e del vivere contemporaneo. La serata si è aperta con una conversazione del professor Galimberti che ha spaziato dal nichilismo al problema educativo, rimandando alla sua ultima pubblicazione: “La parola ai giovani”, una sorta di dialogo epistolare con chi ha scritto negli anni al professore. Sono poi seguite alcune domande dal pubblico.

Buonissima la partecipazione, denso  il contenuto e molto attenta la platea. Graffianti e provocatorie le considerazioni sulla società contemporanea e sul ruolo dei giovani, ma soprattutto degli adulti.

Qui di seguito alcune considerazioni a margine della serata, a cura di don Paolo Arienti, teologo dogmatico, incaricato diocesano per la Pastorale giovanile.

 

Una preoccupazione comune

Spesso si parla di coincidenze. Ma quando le ricorrenze si moltiplicano, è bene abbandonare l’ipotesi “caso”, leggere più nel profondo e cercare se c’è un filo che leghi certi avvenimenti e certi processi culturali. È quanto in molti hanno colto nell’ascoltare la proposta di Umberto Galimberti, milanese, filosofo di professione e di fama. È stato interessante cogliere una serie di assonanze sulla parte più “costruttiva” della sua relazione, martedì scorso al teatro Ponchielli, focalizzata sul capitolo educativo, figlio legittimo del rapporto tra generazioni. E soprattutto in platea qualche giovane c’era, ma il pubblico era per lo più adulto. E bene ha fatto il professor Galimberti ad insistere sulle distorsioni che rischiano di accentuare il default delle nuove generazioni, gettando lo sguardo sul pericoloso incrinarsi di un’alleanza educativa che ben presto matura nel breve, eppure lungo, tragitto che porta i bambini delle elementari da casa a scuola e da scuola ancora a casa.

Manca l’alleanza, manca la stima tra adulti, manca il rispetto per un mondo educativo che riconosce se stesso solo se è posto in grado di compiere la propria funzione: quella di marcare la differenza, liberare, affascinare, indicare. Come non pensare alle pagine dure e profumate di D’Avenia in Ciò che inferno non è o alla riflessione più sistematica di Pierangelo Sequeri che rimanda all’urgenza della restituzione di un mal tolto, il desiderio che da sempre ha costituito quel “di più” di libertà su cui lavorare, da giovani, tra sogno e aspettativa, tra contestazione e rielaborazione. Come non richiamare alla memoria le tante voci di denuncia che dal mondo della pedagogia, quella che non si vergogna di amare i più giovani, si leva ormai da tempo, correndo anche il rischio di sembrare “anti” tutto e per questo deprecabile.

Come non essere d’accordo non solo sulla ovvia constatazione della pervasività tecnica nel quotidiano, ma soprattutto sul bisogno di tempi diversi, ove il sedimentarsi del pensiero, il suo purificarsi e il suo allenarsi non siano chimere, ma esercizi pazienti, che alla lunga rischiano di sopravvivere solo nella pratica sportiva (finchè non si interrompe, come per il 27% degli adolescenti italiani).

 

Il nichilismo unico destino?

Galimberti ovviamente propugna con convinzione, ironica e graffiante, la propria idea filosofica, che germina dalla frequentazione delle pagine di Nietzsche e giunge a lui in dialogo con Heidegger e Severino. E lo fa con lucida consapevolezza, quando si chiede quale nome possa avere il cammino dei giovani contemporanei, figli di un disincanto post-metafisico che negli ultimi decenni è diventato palpabile. E li chiama – con buon gioco per sé – “nichilisti attivi”, ricamando sull’interpretazione proposta soprattutto  in L’ospite inquietante del 2007. Ora quell’oscuro personaggio che si aggirerebbe nelle case degli Italiani e che non è né la televisione né la playstation e che non si può scacciare o addomesticare semplicemente con il ricorso a qualche buon libro di  psicologia, incontra una piccola reazione, quasi una resilienza vitale, Galimberti l’assegna ad una percentuale di “proattivi” che egli appunto definisce “nichilisti attivi”. Sono i giovani che non si arrendono, che si ostinano a chiedersi ancora il perché delle cose, a non voltare le spalle alla solidarietà e ad un bisogno sociale di essere-con. E di questi, dentro il marasma dei NEET e le promesse irrazionali di certi adulti, un poco in giro ce ne sono.

Ovviamente il pensiero, preoccupato, va agli “altri” che rischiano di soccombere sempre più sotto il peso di forbici sociali taglienti e salire su ascensori bloccati: sono i figli di genitori “sbagliati” che non si possono permettere certe scuole o certe vacanze o certe opportunità. Li chiamiamo svantaggiati, sbandati… quelli che per qualcuno hanno l’unica colpa di desiderare quanto è loro sottratto per condizione ereditaria. E così salta quel principio di uguaglianza che in questi giorni è a tema nel percorso filosofico – francamente più interessante – di Filosofi lungo l’Oglio, organizzato e sorretto dalla brava Nodari.

Tra i giovani – e tra gli adulti –  non tutti però condividono necessariamente presupposto e approdo di Galimberti. Forse perché ancora imprigionati nella caverna platonica e incapaci di scorgere il vero tragico di Leopardi? Forse perché ancora intrappolati da qualche idea-matrice metafisica, da un orizzonte di senso, religioso, politico, affettivo? Da decenni si proclama la fine delle grandi narrazioni e con sollievo si constata che – forse – sono esauste anche le forze – queste sì nichiliste – della dittatura, del potere in tutte le sue forme esplicite. Eppure di racconti di senso, di sapienza del cuore, come pure di virtù e di futuro tutti ci si deve nutrire, forse perché la struttura fondamentale dell’essere umano, credente o meno, è quella di ricercare, desiderare, ovvero guardare fuori di sé, non bastare a se stesso, nemmeno se a dirlo è qualche illuminato del ‘700.

 

Allora, che cosa resta?

Chiudere – come in realtà Galimberti ha proposto in apertura del suo intervento – su di un nichilismo di fatto e di diritto, forse è impoverente e forse non fa i conti con quanto di irresistibilmente umano tutti si portano dentro: non per forza la voce di Dio, ma sicuramente il desiderio-bisogno di andare oltre, di essere sospinti dalla natura (l’odiata natura oggettiva?) di sé ad altro, al futuro, al generare. E forse è il generare – quello che in molti oggi ampliano nella categoria della generatività, alludendo ad una funzione essenziale della psiche e del corpo umani – ad avere la meglio su ogni forma di nichilismo. Sembra assurdo in un’Africa affamata o in una periferia esistenziale europea, eppure il più povero è tendenzialmente il più generativo; mentre il più ricco – di cose, ma anche di sé – resta tendenzialmente sterile.

Questo forse uno dei punti, al tempo stesso pratici e teoretici, e dunque anche politico-educativi: è possibile oggi liberare forze generative? È possibile che educatori, genitori, insegnanti, quanti si prendono a cuore la giusta distanza con i più giovani, nell’equilibrio precario tra autonomia e testimonianza, aiutino a superare la sterilità?

Che piaccia o non piaccia a Galimberti, i grandi racconti biblici (e non solo), le grandi narrazioni di tempi vicini e lontani o hanno a che fare con la vita o non sono che pezzi da museo o peggio da cantina di archivio. Sono stati. Ma nulla di più. Per qualcuno quei racconti, quella sapienza dicono della vita e di una vita che può coniugarsi con la dignità della speranza. E questo vale anche per una fede come il Cristianesimo che nella sua struttura intima non si chiude nel solo approdo monoteistico – di per sé tanto fecondo quanto pericoloso -, bensì nell’orizzonte del futuro del nome di Dio o del “regno che viene”. A ben guardare, questa sì è la sua vera molla, capace di trascinare anche l’altro nella forma della prossimità e della fratellanza, taciuta l’altra sera.

E questo vale laicamente anche per ogni società che non può reggere – come ricordava Galimberti – alla compresenza asfissiante di tre generazioni, ma che in qualche modo – violento o pacifico, dissennato o intelligente – deve muovere risorse generative, riaccettando il rischio – tutt’altro che nichilistico – del mettere al mondo e del generare, del far spazio ad altro, dell’uscire da sé.

Questa forse è una sfida vera, che rende quel drappello di “attivi” meno soli e meno paludati di quanto si voglia pensare. Forse resta qualcosa, resta altro.

 

Ospitare… ed essere ospitati

L’ospite inquietante c’è ed è in tutti. Forse però non gli va riconosciuto così velocemente il titolo nobiliare di padrone di casa. Starà a benedizioni più sagge dire bene e vedere bene dell’altro giovane e consegnargli  qualcosa di sostanzioso. Un gesto pratico che forse porta con sé qualcosa di più profondo, non eroso dal cancro del nulla.

don Paolo Arienti

 

Qualche riferimento bibliografico

  1. GALIMBERTI, L’ospite inquietante, Milano 2007
  2. GALIMBERTI, La parola ai giovani, Milano 2017
  3. CUCCI, La crisi dell’adulto, Assisi 2012
  4. GARELLI, Educazione, Bologna 2017
  5. PIETROPOLLI CHARMET, L’insostenibile bisogno di ammirazione, Bari 2018