1

“Admirantes Iesum”, lo stemma del vescovo Trevisi

La acque del Po e del mare di Trieste; acque anche mosse, come in questi tempi. In cielo la stella, Maria stella del mare, che guida e orienta verso il porto sicuro. E poi due spade spezzate e tre spighe di grano, segno del frutto della terra e del lavoro dell’uomo che diventa Eucarestia. Sono questi alcuni degli elementi nello stemma di mons. Enrico Trevisi, eletto vescovo di Trieste, dove farà il proprio ingresso il prossimo 23 aprile, dopo l’ordinazione episcopale del 25 marzo nella Cattedrale di Cremona.

Il motto “Admirantes Iesum” è ispirato alla Lettera agli Ebrei (cf. Eb 12,2): “tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede. Egli in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l’ignominia, e si è assiso alla destra del trono di Dio”. Uno sguardo meravigliato, incantato: siamo ammiratori di Gesù. Uno sguardo fisso su Gesù nel nostro camminare nella vita e nel mondo e verso la meta della nostra esistenza: la piena comunione con Dio. Sempre dietro a Gesù, la Parola fatta carne che ci porta al Padre, senza staccare gli occhi da Lui: in ogni frangente della nostra vita – e ancor più quando il discernimento e le prove si fanno più impegnative – si tratta di tenere gli occhi su Gesù, il Crocifisso Risorto, il Vivente in mezzo a noi. È Lui che ci guida alla meta; è Lui che siamo chiamati a seguire. Lui ci indica la direzione.

Secondo la tradizione araldica della Chiesa cattolica, lo stemma episcopale è composto da uno scudo (in questo caso di foggia gotica) contenente i simbolismi propri scelti dal vescovo: nel primo partito, d’azzurro, la stella accompagnata da cinque burelle ondate d’argento in punta; nel secondo due spade spezzate poste in decusse, sormontate da tre spighe di grano, il tutto al naturale. La croce astile, in oro, posta in palo, ovvero verticalmente dietro lo scudo, è “trifogliata”, con cinque gemme rosse a simboleggiare le cinque piaghe di Cristo. Il tutto sormontato dal cappello prelatizio (galero), con cordoni a dodici fiocchi, pendenti, sei per ciascun lato (ordinati, dall’alto in basso, in 1.2.3), il tutto di colore verde. Il cartiglio inferiore reca il motto.

Hanno collaborato a redigere lo stemma e per la descrizione araldica Renato Poletti e Gianluigi Di Lorenzo

 

Interpretazione dello stemma

Lo stemma è sormontato dalla Croce astile con il segno delle piaghe di Cristo e il motto riportato nel cartiglio dice di guardare incantati e ammirati. Ci chiede di non togliere gli occhi da questo amore infinito, qui rappresentato dalla croce: Admirantes Iesum.

Cremona, e in particolare la Parrocchia di Cristo Re, è lungo il Po, e scendendo verso il mare si possono incontrare acque agitate: è l’immagine di questo nostro tempo, definito da papa Francesco come un “cambio d’epoca”. La stella in cielo è – nell’araldica e nella tradizione spirituale – il rimando a Maria stella del mare (Stella Maris) che ci guida e ci orienta: Lei ci consente di arrivare al porto sicuro, lì dove Dio si prende cura di noi.

Trieste è il porto sicuro chiamato ad essere da San Giovanni Paolo II luogo di incontro, di apertura, di ascolto, “patria del dialogo”, “centro di raccordo e di stimolo per la costruzione della nuova Europa”. Il rimando a Maria è anche un omaggio a S. Maria del Fonte (Caravaggio) compatrona della diocesi di Cremona e a Maria venerata a Trieste come Madonna della salute e Madre e Regina.

Nel campo di sinistra (destra e sinistra sono posizioni invertite in araldica in quanto si riferiscono a chi porta lo scudo, risultando pertanto invertite per chi lo guarda standogli di fronte) ci sono due spade spezzate. Sono la memoria della guerra e della furia omicida che ha insanguinato Trieste e sta terrorizzando il mondo. È il desiderio di non dimenticare ma anche di ripartire per una civiltà di pace e di giustizia che nelle diversità ci deve trovare tutti protagonisti. Isaia dice: “Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, dalle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione” (Is 2,4).

Ecco che maturano le spighe, che dicono di una civiltà del lavoro e del rispetto del creato. Gesù ha preso il pane, frutto della terra e del lavoro dell’uomo, e ne ha fatto l’eucarestia, il sacramento del suo amore crocifisso, l’alimento spezzato e condiviso, la sua presenza continua.

L’azzurro è il colore simbolo della incorruttibilità del cielo, delle idealità che salgono verso l’alto; rappresenta il distacco dai valori terreni e l’ascesa dell’anima verso Dio, mentre l’argento è il simbolo della trasparenza, quindi della verità e della giustizia: non può esserci pace senza giustizia, non può esserci dialogo e nuova civiltà senza la fatica di un cammino paziente di ascolto nella ricerca di quel bene possibile che sta sempre oltre quanto possediamo.

C’è anche un’altra lettura spirituale che si intreccia con il ministero di don Trevisi: dove c’è Maria c’è la Chiesa, c’è una Madre, c’è una Famiglia. Per tanti anni ha svolto il ministero tra le famiglie e nel desiderio di fare della Chiesa una “famiglia di famiglie”; e per tanti anni è stato educatore tra i seminaristi: ecco che le spighe rimandano a quella comunione eucaristica al cui servizio sono chiamati i presbiteri che non hanno l’insieme dei carismi, ma il carisma dell’insieme.

 

ADMIRANTES IESUM

Tra i testi biblici che spesso mi hanno aiutato ad orientarmi nella vita Ebrei 12,2 mi ha sempre attratto. Dice così: “tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede. Egli in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l’ignominia, e si è assiso alla destra del trono di Dio”. Guardando la neo-vulgata il motto avrebbe potuto essere: “ASPICIENTES IN IESUM”. Uno sguardo fisso su Gesù nel nostro camminare nella vita e nel mondo e verso la meta della nostra esistenza: la piena comunione con Dio. Sorretti dallo Spirito, sempre dietro a Gesù, la Parola fatta carne che ci porta al Padre, senza staccare gli occhi da Lui: in ogni frangente della nostra vita – e ancor più quando il discernimento e le prove si fanno più impegnative – si tratta di tenere gli occhi su Gesù, il Crocifisso Risorto, il Vivente in mezzo a noi. Ma il motto è parso troppo difficile per la comprensione, e da qui la richiesta a don Marco D’Agostino, docente di Sacra Scrittura e Rettore del Seminario Vescovile di Cremona, per un’espressione ancorata allo stesso testo “tenendo fisso lo sguardo su Gesù” ma un po’ più immediata e comprensibile. Da questo fraterno aiuto è venuta la scelta del motto: ADMIRANTES IESUM.

don Enrico, vescovo eletto di Trieste

 

Per un’interpretazione di Ebrei 12,2, di seguito le note esplicative di don Marco d’Agostino.

 

Il verbo greco, nel testo originale di Ebrei 12,2, usato dall’autore (predicatore) della lettera agli Ebrei, è apo-orào, tradotto da san Girolamo con aspicio.
Il verbo greco orào (vedere) è rafforzato dalla preposizione apo (che di per sé dice “distanza”), ma in questo caso rafforza e dà intensità al verbo (vedo, con intensità, fisso, metto lo sguardo su…). Non dimentichiamo che siamo nel greco ellenistico e buona parte delle sfumature del greco classico sono mitigate (per apò cfr. L. Rocci, Vocabolario GRECO ITALIANO, Società Dante Alighieri 1988, 208).
Il testo della lettera agli Ebrei (12,2) dà a Gesù il titolo di “autore” (archegòn), nel senso di “pioniere [1]”, capostipite, fondatore, e perfezionatore (teleiotèn) della fede.
Il senso, in greco, è quello del “capo gara” che guida gli altri alla meta, quindi li porta alla salvezza (li “perfeziona”, perché gli fa compiere lo stesso esercizio che Lui, con la sua passione, morte e risurrezione, ha già compiuto per tutti). La fede dei cristiani si fonda sull’affidabilità di Gesù, causa di salvezza per coloro che gli obbediscono. Senza Gesù non si può arrivare alla meta.
Il senso, dunque, in italiano è quello di mettere gli occhi su Gesù, di non staccarli da Lui perché, diversamente, ci perderemmo, non arriveremmo ad essere partecipi della sua stessa vita.
Il latino aspicio (verbo appartenente al campo semantico del vedere, con le preposizioni) rendeva, evidentemente per san Girolamo, il senso del greco aporao.
Ma anche ad-miro esprime lo stesso concetto e, in effetti, il senso è vicino all’italiano. Mirare è porre gli occhi, con l’aggiunta della preposizione ad, si esprime anche il “verso” qualcuno, perché la preposizione latina esprime, spesso, il moto a luogo (rivolgersi a, col senso di iniziare a muoversi e con uno scarto ancora in atto per raggiungere la meta).
Da qui l’espressione ADMIRANTES IESUM.
C’è anche un inno latino dell’Ascensione che lo ricorda (gli apostoli che fissano lo sguardo su Gesù e gli angeli che chiedono loro perché fissano il cielo).
Credo che questo possa avvicinarsi all’italiano, nel senso che la comunità dei cristiani è invitata dall’autore della Lettera agli Ebrei (e, nel nostro caso, dal suo vescovo e pastore) a guardare a Gesù perché la loro fede sia forte, quotidiana, perseverante come è stato il rapporto filiale tra il Padre e il Figlio.
Dal momento che Gesù è entrato nella comunione piena del Padre ora è in grado di offrire anche ai credenti in Lui (ancora in cammino, ma che guardano verso di Lui con attenzione e fede – tutto espresso dalla preposizione ad) la possibilità di entrare nella stessa comunione, dopo averli purificati dal peccato e avendo donato loro la salvezza.

don Marco D’Agostino

 

[1] Quella di “pioniere”, cioè uno che guida un popolo, un gregge, mi sembra un’interessante interpretazione di F. Manzi, Lettera agli Ebrei, Padova 2001, 154.