Don Milani: cittadino, prete e maestro … che parla ancora

Nel 50° della morte del priore di Barbiana, sabato 11 marzo alle 16 convegno al Centro pastorale diocesano di Cremona per insegnanti ed educatori
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Un pomeriggio di studio e riflessione sulla figura di don Lorenzo Milani. È il convegno promosso sabato 11 marzo, a partire dalle 16, presso il Centro pastorale diocesano di Cremona. L’incontro, dal titolo “Faccio scuola perché voglio bene a questi ragazzi”, è promosso dagli uffici diocesani per la Pastorale scolastica e l’Insegnamento della religione cattolica nel 50° delle morte di don Milani, “Cittadino, prete, maestro … che parla ancora”, come evidenzia il sottotitolo del convegno aperto a tutti, ma rivolto in modo particolare a insegnanti ed educatori.

Il Convegno intende ricordare la profetica e controversa figura di don Milani ed essere occasione per ringraziare e ricordare. Ringraziare Dio, la storia e la Chiesa per aver dato in don Lorenzo un uomo, un prete e un maestro unico per intelligenza, vocazione sacerdotale e profezia pedagogica. E ricordare: non tanto per rendere omaggio a una figura di rilievo del Novecento, quanto per farlo conoscere alle nuove generazioni di docenti ed educatori di oggi.

L’appuntamento è a partire dalle 15.30. Dopo il momento di accoglienza, alle 16 i lavori congressuali entreranno nel vivo con i saluti introduttivi e alcuni suggestioni in video. Spazio quindi all’intervento del giornalista Mario Lancisi: corrispondente de “Il Corriere Fiorentino” e “Toscana 24”, sito on-line del gruppo Il Sole 24 Ore, dopo trent’anni da inviato del “Tirreno” e collaboratore de “l’Espresso”, è autore di saggi e libri sulla figura di don Milani. Ha scritto anche biografie su Adriano Sofri, padre Alex Zanotelli, Gino Strada e don Pino Puglisi.

Dopo le risonanze in sala e la condivisione dei progetti in atto nelle scuole, intorno alle 18.30 la conclusione del convegno.

Locandina del convegno

 

Don Lorenzo Milani. L’esilio di Barbiana

Tra le ultime pubblicazioni su don Milani, in occasione proprio dei 50° della morte (1967-2017) c’è “Don Lorenzo Milani, l’esilio di Barbiana” (Edizioni San Paolo) di Michele Gesualdi, uno dei primi sei “ragazzi” di Barbiana. Dando voce alle vive testimonianze di quanti lo hanno conosciuto direttamente, basandosi anche sulle sue lettere, alcune delle quali inedite, Gesualdi ricostruisce il percorso che ha portato don Milani all’ “esilio” di Barbiana.

La narrazione prende il via dagli anni del Seminario, ma si sofferma diffusamente e opportunamente sul periodo in cui don Lorenzo è stato cappellano a San Donato di Calenzano, perché se Barbiana è stato il “capolavoro” di don Milani, Calenzano ne è stata l’officina. È però nel niente di Barbiana, di cui don Lorenzo diviene Priore nel 1954, che si compie il “miracolo” del Milani, quel niente che egli ha fatto fiorire e fruttificare, prendendosi cura degli esclusi e degli emarginati.

Un libro straordinario e commovente in cui Gesualdi, che ha vissuto in casa con don Lorenzo tutto il periodo di Barbiana, apre il suo cuore e svela il vero volto di don Milani: un prete, un maestro, un uomo, un “padre” che ha fatto del suo sacerdozio un dono ai poveri più poveri.

La prefazione del libro è i Andrea Riccardi, la postfazione di don Luigi Ciotti.

 

Don Lorenzo Milani, «Formare le coscienze è stata la sua lezione»

Suona perfino scontato – a mezzo secolo dalla morte – parlare di attualità di don Milani. In questi cinquant’anni le ingiustizie e le povertà non sono certo diminuite, e la Barbiana di allora, così come apparve a don Lorenzo il 7 dicembre 1954, si riflette nelle tante Barbiane del nostro tempo: quelle dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, quelle delle zone di guerra e del Mediterraneo, dove il mare inghiotte o depone sulle spiagge i corpi delle vittime della fame, della schiavitù e dell’ingiustizia globale.

Come nelle Barbiane di chi all’altra riva è approdato, senza però trovare lavoro e dignità: quelle delle baraccopoli e dei quartieri ghetto, delle case sovraffollate e dei rifugi di fortuna, quelle di chi cade in mano alle mafie del caporalato, del narcotraffico, della prostituzione.

Ma don Milani è nostro contemporaneo anche per quello che è forse il cuore, il nucleo pulsante della sua opera: la scuola. C’è, irrisolta, una grande questione educativa. Perché se è vero che nel nostro Paese – ma il discorso può essere esteso ad altre democrazie “avanzate” – la povertà assoluta e relativa opprime milioni di persone, è anche vero che ci troviamo di fronte a un diffuso analfabetismo di ritorno, e che l’Italia è tra i primi posti in Europa per dispersione scolastica.

Don Milani ci ha insegnato che non si può combattere la povertà materiale senza una formazione delle coscienze, senza un’educazione alla ricerca. A Barbiana, dove pure il priore si comportava da maestro severo ed esigente, era sempre l’alunno che fa più fatica a dettare il ritmo di marcia e guidare di fatto il progetto comune. Resta un’intuizione preziosa, perché solo così la scuola diventa la base di una società prospera, la cui forza si misura dalla capacità di includere e valorizzare i più fragili, così come la tenuta di un ponte dipende dal concorso di tutti i piloni a sorreggerne il peso. «Se si perde loro – è scritto nella Lettera a una professoressa – la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati». Questo vuoto culturale si riflette infine nel decadimento del linguaggio, un decadimento che si manifesta anche come corruzione e prostituzione della parola. Nella “società della comunicazione”, le parole tendono sempre più a diventare strumenti di potere invece che segnavia della ricerca di verità. E don Milani, che nella parola umana come strumento di conoscenza e di dignità avvertiva lo stesso eco liberante della parola di Dio, non avrebbe certo taciuto di fronte allo scempio linguistico dei discorsi che etichettano, che diffamano, che manipolano la realtà e nascondono la verità.

Ecco allora che opportunamente Michele Gesualdi  nel suo  libro – Michele Gesualdi: Don Lorenzo Milani, l’esilio di Barbiana, Ed. San Paolo -, mette in guardia dal rischio di una memoria deferente e d’occasione, o peggio di strumentalizzazioni o appropriazioni indebite della sua eredità intellettuale e spirituale. Don Milani non va celebrato ma vissuto, così come «Barbiana era molto più di una scuola, era un vivere in comune». Non può esistere un “don Milani in pillole”, citato a seconda di circostanze e convenienze, così come il famoso passo dell’obbedienza che non è più una virtù, non deve essere interpretato come un generico invito alla ribellione, ma come un’esortazione a seguire la voce della propria coscienza, che non è mai accomodante, che sempre ci chiama a quelle responsabilità che proprio il conformismo e l’obbedienza acritica permettono di eludere. Essere consapevoli significa essere responsabili, significa mettere la nostra libertà al servizio di chi libero non è. È di questa libertà che don Milani è stato maestro. A noi spetta il compito di esserne, almeno, testimoni credibili.

Stralcio dalla postfazione di don Lugi Ciotti

 

Don Milani, «Prete senza etichette, dalla parte dei poveri»

Su don Lorenzo Milani è stato scritto molto. La sua figura ha scosso in profondità tante coscienze a partire dagli anni Sessanta. Ha fatto quindi discutere e scrivere. La sua scuola è stata un modello per numerose scuole, anche se non si può dire che ci siano state repliche dell’esperienza di Barbiana. Resta però la grande domanda su chi sia stato davvero don Milani.

Barbiana, quando don Milani vi fu inviato, era niente: un posto di montagna sperduto e spopolato. Oggi è ancora meno. Tuttavia oggi Barbiana resta un fatto della nostra storia, nonostante la sua piccolezza, ma anche un simbolo. Un simbolo su cui converrebbe interrogarsi di più. La dimostrazione di quanto, in condizioni impossibili, possono fare un uomo o una donna che amano e lavorano per gli altri. Torna alla mente quanto il Priore scrisse alla madre: «La grandezza di una vita non si misura dalla grandezza del luogo in cui si è svolta, ma da tutt’altre cose. E neanche le possibilità di fare del bene si misurano dal numero dei parrocchiani».

Per tanti anni, la figura del Priore di Barbiana, con la sua scuola, si è imposta all’attenzione di molti. È apparso soprattutto un maestro o un protagonista di battaglie civili. E lo è stato effettivamente. Lettera a una professoressa è un testo su cui si sono misurati quanti si occupavano di scuola ed educazione, ma anche molti che si sono impegnati nella società civile e nelle periferie. Quel testo ne ha fatto una figura nota come educatore, ma anche attore di una pedagogia rivoluzionaria e di un’azione sociale di promozione degli ultimi. Un grande attivista sociale, che in vita è stato qualificato anche come un eversivo o un comunista. A questo avrebbero contribuito pure le sue posizioni sull’obiezione di coscienza, la guerra, l’antifranchismo e l’antifascismo.

Ed anche la sua assenza di “prudenza” ecclesiastica che, allora, contraddistingueva anche non pochi preti illuminati di Firenze.

Eppure non c’è solo il don Milani di Lettera a una professoressa. O meglio questo libro è il punto d’arrivo di una storia. A tante rappresentazioni della figura del Priore sfugge il cuore della sua personalità. È anche motivo della sua angoscia personale negli ultimi tempi di vita, quando domandò alla Chiesa di ereditare la sua opera. Chiese che la sua persona fosse riconosciuta con un qualche gesto dalla comunità ecclesiale. Non fu la ricerca di un viatico rassicurante o ancor meno fu carrierismo, ma rappresentò l’espressione di un sentire profondo. Non era un impegno privato il suo: «Temeva che quel clima – ha dichiarato un prete che lo conosceva – avrebbe vanificato la sua scelta di servire la Chiesa attraverso i poveri, col rischio che, agli occhi della gente di Barbiana, il suo apostolato apparisse un fatto privato».

Milani è fondamentalmente un prete e un cristiano che sceglie per i poveri e per il Vangelo. Sia la sua opera che la sua personalità sono impregnate da questa sua scelta evangelica. È però significativo come il prete Milani, così prete, parli oltre i confini confessionali, rappresenti un’attrazione per i laici e un oggetto d’interesse per la stampa laica. Vuol dire che dal profondo di un’esperienza evangelica vera con i poveri c’è qualcosa che interpella il mondo laico e quello di sinistra nell’Italia degli anni Cinquanta-Sessanta e forse oltre quel periodo. Si vede come un dialogo non ideologico – anche in un tempo di muri ideologici qual era quello di don Milani – possa sempre partire dai poveri.

Non è un prete di sinistra. Non è un prete a suo agio con l’intelligenza progressista. Don Lorenzo non è un cattolico contestatore come quelli degli anni postconciliari. Non è certo un clericale. Don Lorenzo non si poteva incasellare o ancor peggio utilizzare. Scandalizzava i conservatori e i tradizionalisti in un mondo in cui erano ancora forti. Scavalcava i progressisti in un tempo in cui avevano un’identità. Don Milani non si può classificare con le categorie con cui si leggono i cattolici degli anni Sessanta. Molti lo hanno fatto ed è normale. Ma non lo hanno capito.

Stralcio dalla prefazione di Andrea Riccardi